domenica 30 gennaio 2011

LE ULTIME LEGGI SULLA GUIDA IN STATO DI EBBREZZA.


E’ storia di ogni giorno leggere sui giornali di persone che, guidando le autovetture o le moto in stato di ebbrezza, mettono in serio pericolo non solo la propria vita, ma anche quella degli altri, rendendosi responsabili, frequentemente, anche di omicidi colposi dovuti ad  atteggiamenti improntati all’imprudenza più evidente.
L’ Istituto Superiore di Sanità (leggevo, giorni orsono) pubblica un dato importante :  in Italia, ben  il cinquanta per cento degli incidenti stradali mortali sono causati da conducenti che siedono al volante o in stato di ebbrezza oppure in preda a sostanze stupefacenti.
Di recente mi è capitato di affrontare questo argomento con un chirurgo che lavora, da tempo e  in prima linea, presso il  servizio di pronto soccorso di un ospedale napoletano. Il mio amico, con tristezza,  mi diceva che ogni sabato notte l’indice di mortalità tra i giovani è  altissimo,  proprio a causa dello stato di alterazione psico-fisica derivante o dall'influenza dell'alcol oppure dall’assunzione di  droghe ( pesanti o leggere ).
Il medico, compreso il mio interesse,   mi spiegava anche  che l’assunzione di  queste sostanze non faceva  altro che innestare, sul conducente, un’ impasse seria, come ad esempio una enorme difficoltà a captare e recepire gli stimoli, una dilatazione sproporzionata ed indescrivibile dei tempi di reazione rispetto ad un pericolo improvviso e,infine, una indubbia difficoltà ( e talvolta addirittura mancanza )  di coordinazione dei movimenti sia mentali che fisici indispensabili per un pieno autocontrollo di sé.
E le Istituzioni che cosa hanno fatto ( o che cosa fanno ) per cercare di  arginare questo fenomeno  sociale? Questa è la domanda che da più parti ci si sente porre, peraltro con frequenza ed insistenza.
Ebbene, sappiamo che qualche anno fa è entrato in vigore il  decreto  Bianchi ( pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del  21 ago. 2007 ) che si proponeva il seguente primario obiettivo  : non solo contrastare questo forte fenomeno in crescita, ma anche e soprattutto, in un certo qual senso, prevenire, a largo raggio, il verificarsi di condotte pericolose ed irresponsabili da parte di soggetti sicuramente incoscienti, protagonisti di azioni folli, quando si pongono al volante delle loro  auto. L'anno scorso questo decreto è stato innovato lasciando, grosso modo, intatta la sua architettura, ma rivisitandolo in alcuni punti.
Con la nuove due ultime normative, però,  ( … spiegavo al mio amico medico ), sono stati stabiliti una serie di parametri : ad esempio  la quantità minima di alcol che consente ad una persona di guidare, superata la quale,  scattano le sanzioni di legge;  sono stati anche stabiliti diversi  gradini di punibilità,  a seconda del tasso alcolemico accertato, di volta in volta, nel sangue del guidatore fermato;  operando, di conseguenza, così, una netta e chiara distinzione tra chi provoca  un incidente e chi, invece,  non lo provoca ecc...
Queste le novità e queste le barriere che, entrate in vigore,  avevano l’ambizioso fine di tutelare  la sicurezza della collettività facendo fronte a comportamenti di soggetti irresponsabili  che non hanno – ancora oggi ! - capito  che guidare un‘ autovettura è sicuramente un fatto serio e che appartiene a  persone mature ed equilibrate.
Quanto, poi, all’accertamento del tasso alcolemico (il cd. T.A),il  mio amico medico, in quell’occasione, mi spiegava anche che l’ eseguire un accertamento del genere,  non era certamente  impresa  facile.
Ciò  non tanto per i giovani, ma soprattutto per quanto riguarda gli  anziani, in quanto i livelli del T.A. sicuramente variano in relazione ai molteplici fattori che concorrono a determinarlo quali, ad esempio,  l’età, le patologie epatiche ecc.. che hanno la conseguenza di elevarlo anche quando la quantità di alcol ingerita sia al di sotto della soglia consentita per legge.
All' amico che mi chiedeva quali erano le ultime novità  e se una normativa del genere era  in grado di tutelare la collettività,  risposi molto semplicemente  che, secondo me,  l’aver aumentato, di fatti,  soltanto  le  sanzioni ( queste in sintesi le novità !) era  cosa non del tutto  esaustiva.
Ma cosa, in realtà, era previsto sotto un profilo innovativo ? Era prevista, ad esempio : la sanzione  da cinquecento a duemila euro, e la sospensione della patente da tre a sei mesi  per chi, al controllo, si presentava  con un tasso alcolemico tra 0,5  e 0,8 gr/l.  
Superato questo  limite , se  il tasso era  superiore all’0,8 ma compreso fino a  1,5 gr/l,  la sanzione  andava fino a tremiladuecento euro, con l'arresto fino a sei mesi e la patente veniva  sospesa per un periodo tra i sei mesi e l' anno di arresto.
Chiarì, poi, al mio interlocutore che qualora, invece, all’automobilista fosse riscontrata una quantità  superiore a 1,5 gr/l ( T.A),  sarebbe stata applicata  la sanzione da millecinquecento euro  fino a seimila euro e la patente di guida, anche in questo caso, veniva  sospesa da un anno fino a due  anni; oltre all’arresto fino a sei mesi  e la confisca del veicolo, in caso di condanna. 
Quando, poi, mi fu chiesto se c’era differenza tra il conducente in stato di ebbrezza responsabile dell’ incidente e  chi responsabile non era, gli chiarii che, nel primo caso, le pene andavano sicuramente aumentate. Spiegai, in buona sostanza, che le sanzioni sarebbero state aumentate, quando il tasso alcolemico riscontrato nel sangue era più alto di quello di cui alle tabelle cui prima abbiamo fatto cenno.Con il mio amico, infine, parlai della  normativa vigente negli altri stati dell’Unione Europea : a tal proposito convenimmo insieme nel dire  che il tasso alcolemico consentito in quei Paesi aveva un limite massimo : generalmente pari a 0,5 mg/ml, con le eccezioni di Gran Bretagna, Irlanda, Lussemburgo (0,8 mg/ml) e Svezia (0,2 mg/ml), mentre  in Spagna e in Austria il T.A. era addirittura ancora più basso,  soprattutto  per alcune  categorie di conducenti ( fino a 0,3 mg/ml per i principianti e per i conducenti di  veicoli commerciali e di trasporto, nonché per i motociclisti minori degli anni diciotto); infine in Austria il limite era pari a 0,1g/ml.Qualche mese dopo  mi capitò  di leggere una rivista, in tema di commercio estero,  la quale, in un interessante articolo, sottolineava che l'Unione Europea,  più volte,  era intervenuta con proprie direttive,  contenute nell'art. 152 del Trattato Istitutivo della Comunità Europea" e con un proprio Libro Bianco del 12 set. 2001 con cui si affermava  che era prioritario  risolvere  il problema dell'armonizzazione delle normative, delle sanzioni e dei controlli sulla guida in stato di ebbrezza, con l'obiettivo di aumentare la sicurezza sulle strade europee e di ridurre ulteriormente i tassi alcolemici  legali ai livelli indicati nella raccomandazione n. 2001/115/CE del 17 gen. 2001.
In definitiva alla nostra domanda iniziale sul “se”  le ultime  leggi  in tema di “ guida in stato di ebbrezza “,  siano  veramente sufficiente a  garantire  e prevenire la salvaguardia della sicurezza stradale  alla nostra collettività,  dobbiamo avere il coraggio di rispondere che la strada da percorrere è ancora lunga, nel senso che le tabelle di riferimento (sui tassi alcolemici  consentiti per legge ) devono essere  ancora una volta rivisitate ed armonizzate con quelle europee ( perché, non vi è dubbio, che - dati alla mano -  i valori stabiliti negli altri Paesi sono più bassi dei nostri).
Ciò al fine di aumentare l’indice di sicurezza sulle strade e  prevenire  i comportamenti a rischio di soggetti non solo  irresponsabili, ma anche più giovani e meno esperti,  che devono essere necessariamente sensibilizzati ai pericoli legati all'alcol.
In tale contesto, infine,  riteniamo che debba  essere ridisegnato  anche il reato di  “omicidio colposo per incidente stradale “  se a commetterlo sia  un  soggetto in preda all’alcol o all’assunzione di  droghe; in questa eventualità,  riteniamo corretto sostenere -  non come sterile provocazione,  ma come seria di riflessione -  che possa essere seriamente riconsiderata l’ipotesi che si  possa versare nel caso classico di “ evento comunque da prevedersi e, quindi, in conclusione,  chi commette un fatto del genere deve rispondere non  già di omicidio colposo, ma di omicidio volontario. 

                                                                                                                    Avv.Raffaele Gaetano Crisileo

sabato 29 gennaio 2011

LA FIGURA DELLA VITTIMA DEL REATO.

Il termine, vittima del reato, è di origine latina “victĭma” ed indica “l’uomo o animale da immolare nei riti sacrificali”.
La letteratura greca ci ha presentato tanti esempi di vittime illustri; si pensi alla figura mitologica di Ifigenia, nella tragedia di Euripide. Agamennone, padre di Ifigenia, facendole credere di darla in sposa ad Achille, invece voleva sacrificarla ad Artemide per ottenere i favori della dea.  Ifigenia dapprima implorò di essere salvata, dopo, invece, accettò il sacrificio.
Emerge, qui, la contraddizione e, al tempo stesso, la duplice valenza della stessa vittima: da un lato essa è destinata ad una sorte drammatica e, come tale sofferente,  e dall’altro lato, è  condizionata dall’idea di salvare il suo popolo e ottenere così una gloria eterna.
Un’interpretazione del genere  è stata scelto da alcuni  criminologi e sociologi  francesi  che, nello studio della vittima, hanno evidenziato l'attrazione che, oggi, alcune "vittime" manifestano nei confronti della notorietà.
L’intenzione di questi autori  è quella di darci  una nuova interpretazione della figura della vittima del reato: essa non è solo un soggetto che soffre,  ma, al tempo stesso, è una persona che può, per interessi personali, strumentalizzare la vicenda dolorosa occorsale.
Sin dall’antichità la vittima esiste e costituisce,  moltospesso,  il soggetto sul quale la comunità scarica la sua violenza.
È il sociologo  Renè Girard a dare questa interpretazione,  partendo dal presupposto che la società è iniziata con la violenza contro un capro espiatorio.
 In un contesto del genere “è criminale uccidere la vittima, perché è sacra, ma, nello stesso tempo,  essa non sarebbe sacra se non la si uccidesse”.
Nelle primitive comunità  la violenza doveva essere necessariamente fermata con il sacrificio per evitare il conflitto; la società, nel tempo, ha cercato di  incanalare la violenza, su un diverso binario, per mantenere l’ordine.
Lo “step”  successivo, dove il sacrificio diventa superfluo, avviene secondo Renè Girard con l’avvento della civiltà giudiziaria: “è il giudizio che deve rompere definitivamente  il rapporto tra la violenza ed il  sacro; è il giudizio che deve riportare la violenza alla dimensione del problema sociale.
Un’ interpretazione del genere ( "il giudizio rende superfluo il sacrificio e le civiltà giudiziarie non sono più sacrificali" ) ci deve necessariamente  far  riflettere  a lungo sul ruolo della vittima quale "pharmakos"; una vittima espiatoria in grado di “attirare su di sé tutta la violenza malefica per trasformarla, con la propria morte, in violenza benefica”.
Con la nascita della vittimologia, però,  l' analisi della “vittima del reato” cambia completamente.
In questa nuova disciplina viene privilegiato il concetto di  vittima che viene intesa come una persona che ha subito un pregiudizio fisico o mentale; che ha subito sofferenze psichiche, danni  morali e materiali (che costituiscono una violazione del diritto penale); che  necessita di un giusto sostegno  per fronteggiare le conseguenze successive al trauma subito.
 La nascita della vittimologia risale al 1948,  quando Von Hentig pubblicò l’opera “Il criminale e la vittima “; ciò nonostante il primo studioso ad usare  il termine “vittimologia” è stato, un anno dopo, F. Wertham che, nel suo scritto “Lo show della violenza”, lo ha utilizzato  per studiare la vittima e l’azione criminale”.
Wertham auspica lo sviluppo di una sociologia della vittima, di uno studio finalizzato  alla vittima del  reato, con particolare riferimento al delitto di omicidio.
Von Hentig si sofferma a lungo sulla vittima del reato evidenziando  ed analizzando i  possibili rapporti che possono intercorrere tra il criminale e la vittima, appunto nella diade dell’ interazione criminale.
La sua grande intuizione, però, è stata proprio quella di capire che la vittima non ha un ruolo sempre meramente passivo, ma può  interagire con il suo carnefice ed il suo modo di essere, il suo atteggiamento contribuiscono a determinare l’azione criminale a suo danno.
Anche B. Mendelsohn ha rivendicato la paternità del termine “vittimologia”; a lui è stato riconosciuto il merito di aver messo in evidenza il ruolo marginale assegnato alla vittima nel procedimento penale, nonché l’assenza di qualsivoglia attenzione politica e sociale nei suoi confronti.
Il suo intento è, dunque, quello di studiare la “vittima” da un punto di vista biologico, psicologico e sociale.
Mendelsohn,  parlando anche di partecipazione morale della vittima all’azione criminale (una  partecipazione che varia d’intensità) ha definito una  scala della partecipazione morale della vittima in base alla quale esistono sei categorie di vittime :
1. la vittima del tutto  innocente, che ha  un ruolo meramente passivo;  
2. la vittima che, a causa del suo comportamento imprudente,  si pone in una situazione di pericolo;
3. la vittima che assiste o che coopera con altri nella commissione del crimine ( qui l’autore include i suicidi).
4. la vittima  che istiga  direttamente il criminale;
5. la vittima che diventa essa stessa  criminale,  in un eccesso di autodifesa;
6. la vittima immaginaria o simulatrice; cioè colei che crede di essere vittima pur non essendolo o  che dichiara una falsa vittimizzazione.
In definitiva una classificazione del genere, se da un lato contribuisce a delineare situazioni nelle quali possono esistere diversi gradi di partecipazione della vittima nell’interazione con il soggetto attivo del reato, dall’altro lato è sicuramente pericolosa in quanto è basata su mere considerazioni di pensatori  che non sempre possono essere calate nella realtà e quindi  devono  indurre alla cautela.
Ciò  perché la vittima del reato, in uno stato civile  qual è il nostro,  è sempre una persona da tutelare in quanto è essa la persona offesa dal reato e, come tale,  deve essere tutelata in ogni modo perché la parte lesa, quella più debole, necessita di  tutela e di protezione e deve, allo stesso tempo, essere messa in grado di esercitare i diritti riconosciutigli dalla legge in generale e dal diritto penale, in particolare.
                                                                                                        avv. Raffaele Gaetano Crisileo

mercoledì 19 gennaio 2011

DOPO TRENTACINQUE ANNI DALLA LEGGE BISAGLIA.


Dopo trentacinque anni dalla legge Bisaglia.


“Nella mia esperienza professionale di avvocato, sovente mi è capitato di prestare la mia opera professionale di penalista a favore di persone affette da disturbi e patologie mentali con scemata (o addirittura inesistente)  capacità di stare in giudizio e/o con altrettanta inesistente (e/o ridotta ) capacità  di intendere e di volere al momento del compimento  del fatto - reato.
Nella maggior parte dei casi affrontati, ho sentito la necessità di ricorrere all’ausilio tecnico di psichiatri per avere il conforto e l’ apporto qualificato di consulenti,  specialisti ed esperti,  in un campo così delicato qual è quello della malattia mentale e della  sua  connessione con l’accertamento della  responsabilità penale, soprattutto quando si tratta di commissione di reati gravissimi, come ad esempio l’omicidio e quando si tratti dei  reati contro, in genere, contro la persona.
In quest’ottica, siccome la materia psichiatrica mi ha sempre affascinata ed attratta, avendo anche svolto attività di sostegno e di volontariato a favore della categoria dei disabili psichici ( ciò a titolo di esperienza personale),   ho cercato di approfondire non solo i legami e le sue interconnessioni con il diritto penale sostanziale ( cosa che mi interesse da un punto di vista interprofessionale ), ma ho cercato di allargare  il mio orizzonte d’interesse fino allo studio della  legge n. 180 del 13 maggio 1978 ( cd. Legge Bisaglia ) vista sotto un profilo sociale e culturale, alla luce delle innovazioni  da essa apportate per verificare, a distanza di vent’anni della sua entrata in vigore, che cosa ne è derivato da un punto di vista pratico e sociologico.
Lo studio di questa normativa, la cui buona applicazione la  reputo cosa estremamente positiva ( e che, come dicevo,  ha oramai oltre vent’anni di vita,  durante i quali ha retto  all’ala edace del tempo ! )  mi ha spinto a fare una serie di riflessioni e di considerazioni,  non solo sotto un profilo giuridico, ma anche e soprattutto sotto un profilo  sociale e pratico,  che brevemente sintetizzo.
Condivido  innanzitutto,  quell’ indirizzo di pensiero secondo cui la  cd. legge Bisaglia  è stata  sicuramente il punto di arrivo di un lungo, articolato e difficoltoso  processo di trasformazione non solo giuridico, ma anche e soprattutto  culturale e sociale che ha contribuito a riporre in discussione modelli ed idee che sembravano essere state accantonate un po’ da tutti.
Definitivamente  (e finalmente !!)  mi sento di dire  – come ha scritto lo psichiatra Giacanelli -  il malato è divenuto persona ” .  E’  veramente diventato persona !, aggiungo io !!   E’ stato questo  ( ed è questo ) un elemento importante,  dal quale non si può assolutamente prescindere !
Anche se, relativamente alla legge n. 180, vi è stato ( ed è ancora in corso ) un acceso dibattito, io ritengo che questa normativa,  ancorché partorita ed emanata  in un particolare momento politico-sociale,  ha sicuramente una propria importanza ed un proprio valore  sul piano tecnico e culturale, ma ha anche una sua visibilità, a lungo raggio,  che tutti non possono più  misconoscere.
Sotto un profilo analitico, infatti,  la legge in argomento, è una legge quadro, grazie alla quale, secondo me, la maggior parte dei cittadini italiani, ha imparato ad avere nei confronti delle patologie mentali e soprattutto dei disabili psichici, un rispetto ed una tolleranza che in passato non aveva.  
Questa legge, sotto un profilo normativo, fissa alcuni principi generali, dei quali i più significativi sono questi quattro momenti che vale la pena sottolineare  : (a) il superamento degli ospedali psichiatrici; (b) l’integrazione dell’ assistenza psichiatrica nel servizio sanitario nazionale; (c) l’orientamento, prevalentemente territoriale,  dell’assistenza psichiatrica; (d) la limitazione del trattamento sanitario obbligatorio,  in condizioni di degenza ad alcune situazioni ben catalogate.
In buona sostanza,  i principi che ho delineato ( primo fra tutti  il superamento degli ospedali psichiatrici, che per anni è sembrata cosa davvero  irrealizzabile, e che, invece, oggi è una realtà che tutti, a mio modesto parere,  considerano irreversibile) sono indici concreti e sani di una civiltà e di una società che vuole  e che deve guardare in avanti ( che sa  e che  deve davvero guardare  in avanti ) e rappresentano sicuramente dei concreti punti di arrivo,  sicuramente condivisi dalle persone che operano  nel settore della salute mentale, dagli utenti  di questi servizi e dalle loro famiglie .
E’ chiaro che il cammino a farsi è ancora lungo, ma attraverso una serie di progetti ed obiettivi, peraltro ambiziosi, il traguardo, anche se faticoso, non è poi tanto lontano. ”


                                        avv. Raffaele  Gaetano Crisileo




LA LENTEZZA DEI PROCESSI NEL PIANETA GIUSTIZIA.

Parlare, oggi,  di giustizia, di lentezza dei processi  penali è  cosa frequente non solo tra gli addetti ai lavori, ma anche tra persone che non operano in questo settore, così come è altrettanto ricorrente affrontare questo argomento da parte di coloro che s’imbattono nel pianeta giustizia (magari per la prima volta) nella veste di  persone offese dal reato e che mirano soltanto a vedere riconosciuti, in tempi brevi, i loro diritti.

Basta trascorrere qualche ora in un’aula di tribunale ( in quello della nostra città, ad esempio) per rendersi conto dell’enorme carico di lavoro che grava sui magistrati, sui cancellieri e sugli operatori di giustizia i quali -  nonostante la loro buona volontà-  non riescono a  smaltire il “carico” di lavoro che arriva  sulle loro scrivanie.

Il provvedimento di concessione dell’indulto di qualche anno fa  (che ha posto come limite/ barriera  il 2 mag. 2006) di certo non ha contribuito a produrre un effetto deflattivo sull’immane numero dei procedimenti penali pendenti presso le varie Autorità Giudiziarie d’Italia, ed anche presso il nostro Tribunale.

Forse solo  un provvedimento di amnistia  ( l’ultimo risale al 24 ott. 1989,  data di entrata in vigore del nuovo codice  e prima di allora, negli ultimi cinquanta anni, in media, c’è stato un provvedimento di clemenza  ogni dieci anni ) potrebbe forse alleviare, almeno  in parte, questo annoso problema. 

Nella passata legislatura era stato  approvato  un disegno di legge  recanti  disposizioni, tra l’altro, per l’accelerazione dei processi penali,  per la  prescrizione dei reati, per  la recidiva e per i criteri di ragguaglio tra pene detentive e pene pecuniarie …“.

Ed allora, a tal proposito,  ci chiedemmo :  “ ma quella legge, una volta approvata, sarebbe riuscita veramente ed in tempi brevi ad assicurare Giustizia a chi la invocava  e ad assicurare alla Giustizia chi la infrangeva? “

Rispondemmo allora  con un “ forse ”, perché  la  riuscita di quel complesso di disposizioni -  peraltro estremamente innovative e che, comunque forse andavano rivisitate -  non aveva  precedenti nel nostro passato e  sarebbe dipesa  da variabili, difficili a  prevedere. 

Da operatore del settore, lessi  quella proposta di legge ( il cui obiettivo mi sembrava  quello di restituire ai cittadini la Giustizia,   perché una Giustizia lenta, anche se giusta, non è Giustizia” ) e notai subito che, attraverso di essa, si  introduceva istituti giuridici nuovi che, nel tempo, dovevano essere  metabolizzati da tutti noi ( alcuni dei quali li trovai veramente interessanti).
Mi riferisco, innanzitutto,  al nuovo istituto della “messa alla prova dell’imputato “ per velocizzare i procedimenti penali  (istituto, questo,  che condividevo in pieno);  mi riferisco, poi, alle notifiche agli avvocati per posta elettronica;  all’onere demandato agli ufficiali giudiziari di compiere tutti gli accertamenti necessari per giungere a una notificazione effettiva degli atti agli interessati.

Allora mi chiesi : ma quelle novità, una volta approvate, avrebbero alleggerito per davvero il carico giudiziario ?

“Forse sì, Forse no”, quella è la risposta che mi diedi in quanto di quel progetto di riforma ne condividevo buona parte, ma non tutta la sua interezza. 

Condividevo, ad es., la eliminazione del sistema del “doppio binario”, precedentemente introdotto dalla ex Legge Cirielli,  relativamente alle distinzioni tra persone  incensurate e persone censurate, così come auspicavo che si ritornasse  al criterio basato interamente sul fattore tempo per determinare la “ prescrizione del reato”. 

Condividevo anche la cancellazione dell’istituto della contumacia, ritenendo giusto  che il processo sia possibile a farsi solo nel caso in cui l’interessato ne avesse avuto effettiva  e piena conoscenza.


Ma la novità  che mi attrasse molto e che,  a mio parere,   avrebbe comportato sicuri effetti positivi  era quello della “sospensione del processo con messa alla prova “ che già vige da tempo, peraltro,  nel processo minorile e   produce  i  suoi effetti benefici.

Ma in pratica cosa sarebbe avvenuto  ?

In buona sostanza l’imputato ( per  reati puniti con pena pecuniaria o detentiva non superiore a due anni, ad eccezione del falso in bilancio) poteva presentare, in udienza preliminare o in dibattimento, un proprio programma finalizzato ad eliminare le “conseguenze dannose “ del reato,  teso ad un suo reinserimento nella società.

Di conseguenza il  Giudice, se lo riteneva  congruo, avrebbe sospeso  il procedimento avviando la messa alla prova che,  in caso di esito positivo, produceva l’estinzione del reato  con effetti  deflattivi nel campo dei processi penali.

Al pari non ritenevo utile introdurre  altre innovazioni quali quelle in tema di competenza  ed in ordine all’abolizione della possibilità di ricorrere  per cassazione  contro i procedimenti emessi dal Tribunale del Riesame,  in tema di misure restrittive della libertà personale.

Mi auguro che al più presto che un pacchetto genere  venga  riproposto per tentare di risolvere il problema del pianeta giustizia in Italia, con l’ obiettivo di restituire ai cittadini la Giustizia,   perché una Giustizia lenta, anche se giusta non è Giustizia.

avv.Raffaele Gaetano Crisileo

LA NUOVA LEGGE SULLA DROGA.

“Il 9 maggio 2007  è entrato in vigore la nuova legge sulla droga. Nella Gazzetta Ufficiale il decreto pubblicato indica le quantità massime di sostanze stupefacenti (e psicotrope) consentite per l’uso personale oltre le quali può scattare l’accusa di spaccio. Per arrivare a stabilire queste quantità, il Legislatore ha ritenuto opportuno utilizzare i valori relativi alla dose media singola efficace, incrementati in base ad un moltiplicatore in relazione alle caratteristiche di ciascuna sostanza e, con particolare riferimento, al principio attivo ovvero al potere di arrecare alterazione nei comportamenti di chi ne fa uso. Il provvedimento stabilisce, ad esempio, come limite massimo 250mg di principio attivo per l’eroina (che corrisponde a circa 1.7 g. di sostanza lorda ed a 10 dosi); 750 mg. Per la cocaina(che corrisponde a circa 1.6 g. lordi ed a 5 dosi); 500 mg. di cannabis (cioè 5 g. lordi ed a 15-20 spinelli). Tra le altre sostanze più diffuse tra i giovani , ecstasy con 750 mg. (5 dosi) , l’anfetamina con 500 mg. (5 dosi), lsd con 0.150mg. (3 dosi). Più pesanti le sanzioni penali previste nel caso di spaccio: il limite massimo di reclusione è rimasto fissato a venti anni; quello minimo, invece, è stato ridotto , da otto a sei anni , ma riguarderà tutte le sostanze. La nuova legge,però, oltre al criterio della quantità, ha stabilito ulteriori parametri  (ad esempio il possesso di ingenti somme di denaro, etc..) per stabilire se si tratta di consumo personale o di spaccio. Sotto i limiti stabiliti, le sanzioni, saranno di tipo amministrativo e, nello specifico: sospensione della patente di guida ,sospensione della licenza di porto d’armi, sospensione del passaporto,sospensione del permesso di soggiorno, etc…Nei casi più gravi invece : obbligo di presentarsi presso gli uffici di polizia, obbligo di osservare divieti di allontanarsi dalla propria abitazione  e di condurre  veicoli a motore di qualsiasi genere etc…Alcune Regioni hanno presentato ricorso alla Corte Costituzionale nei confronti della legge n. 49/2006 perché l’hanno ritenuta “incostituzionale” e “lesiva” delle loro prerogative, dal momento che hanno la delega in materia sanitaria. In questo contesto è,quindi, possibile che si ritorni alla legislazione precedente. Quello che, a questo punto, si lamenta da più parti  (ed anche da parte degli operatori di diritto) è che dal 1975 ad oggi si gira attorno allo stesso tema: punire o non punire per spingere alla cura. Ognuno vede le cose dal suo punto di vista ed è molto sicuro di ciò che propone perché lo pensa rivolto ad altri . Se tutti noi , invece , cambiassimo davvero prospettiva , forse vedremmo in modo più chiaro ed in modo più lungimirante: di fronte alla diffusione di droghe (lecite ed illecite), ci dovremmo chiedere, in maniera più approfondita che cosa veramente vogliamo ottenere e qual è il progetto che intendiamo realizzare. Solo cosi comprenderemo, anche e soprattutto, che una legge non è una magia: buona o cattiva che sia ha comunque vantaggi e svantaggi , ma è importante che ci sia ed il fatto che ci sia(questa o un’altra ancora) è certamente uno strumento utile per disciplinare la civile convivenza in quanto le droghe rappresentano un serio pericolo per la collettività. In definitiva le “parole d’ordine” devono essere solo queste: prevenzione , repressione e recupero. Tutto questo soprattutto oggi che questa problematica  ha assunto connotati di sempre maggiore gravità  e che, oltre alle implicazioni dirette alla salute dei singoli e sulla criminalità diffusa ed organizzata, s’interseca,poi, con le più complesse emergenze nazionali ed internazionali (ad es. traffico di droga)” 

                           avv. Raffaele Gaetano Crisileo

lunedì 17 gennaio 2011

LA CRIMINALITÀ GIOVANILE di RAFFAELE GAETANO CRISILEO((*)

Fra i tanti problemi che oggi sconvolgono la nostra società, quello della criminalità giovanile non è di lieve entità, anzi esso ne rappresenta uno dei più gravi ed allarmanti, in quanto si manifesta in un continuo crescendo ed arriva ad interessare ormai quasi tutti gli aspetti della vita dell’uomo, da quello economico a quello sociale e psicologico. 

Avv.Raffaele Gaetano Crisileo 
Non solo per capire, ma anche per analizzare e tentare di dare una soluzione a tale grave problema, è oltremodo necessario possedere una visione globale e, al tempo stesso, priva di preconcetti di quella che è la realtà giovanile, rimanendo comunque consapevoli del cambiamento dei valori unitamente al mutare dei tempi, della cultura e delle persone. 

 A questo punto diviene necessaria una lettura degli atteggiamenti e delle condotte adottate dai giovani, senza fermarsi sui luoghi comuni e sugli stereotipi. Occorre, d’altra parte, tenere conto del fatto che la velocità con cui s’instaura il mutamento della personalità umana, della cultura storica e biogenetica dell’uomo è assai più lento rispetto a quello della tecnica e dell’organizzazione sociale[1].

 Per affrontare dettagliatamente tutti i problemi inerenti alla criminalità giovanile, è importante una definizione dei termini utili per individuare e definire nel modo più lineare possibile il fenomeno della criminalità minorile, che è sempre più al centro dell’attenzione, dato il numero continuamente crescente di minorenni che, singolarmente o in gruppo, a causa della loro condotta, rientrano in questa problematica.

Ai sensi delle vigenti leggi, si intende per “minore” quell’individuo che non ha ancora compiuto la maggiore età – i diciotto anni – limite che, prima del 1975, era invece fissato a ventuno anni e risulta pertanto imputabile, cioè oggetto di procedimento penale, solamente nel momento in cui diviene autore di reato e solo nella fascia di età compresa tra i quattordici ed i diciotto anni, dopo appositi accertamenti. Per “condotta”si intende tutto quel complesso di atteggiamenti che un individuo assume come propri, in relazione alle varie situazioni in cui si trova ed agli stimoli esterni, cioè ambientali, che si ripercuotono su di esso, provocando delle specifiche ed a volte impreviste reazioni. Bisogna sottolineare, altresì, che siccome i comportamenti di un soggetto risultano essere l’espressione dello status della propria psiche, la condotta dell’uomo viene inevitabilmente dettata dalla strutturazione della propria sfera interiore.

   Per “criminalità minorile”, invece, si intende l’insieme dei fatti che portano al reato i giovani nella suddetta fascia di età e per comprendere il significato del concetto di criminalità minorile, inoltre, esso è stato distinto in tre differenti tipologie: vi è una criminalità minorile fisiologica, intesa come una condotta deviante che, nella maggior parte dei casi, è destinata a riassorbirsi con l’ingresso dei giovani nell’età adulta; una criminalità minorile patologica che si concretizza nel momento in cui un minore viene coinvolto nella criminalità organizzata; una criminalità minorile patologica relativa ai minorenni stranieri, residenti nel nostro Paese, che sono indotti al crimine in età precoce molto spesso perché vissuti in contesti di marginalità, conflitti culturali, disadattamento e deprivazione.

Non bisogna, comunque, confondere o unificare il concetto di devianza con quello di criminalità, riservando al primo solamente quelle condotte contrarie all’opinione pubblica.

Uno studio accurato del fenomeno della criminalità giovanile offre spunti di riflessione anche da un punto esclusivamente quantitativo, in quanto può essere distinto in reale ed ufficiale: tale differenziazione viene dettata dalla necessità di prendere inevitabilmente in considerazione il cosiddetto numero oscuro che rappresenta tutti quegli eventi delittuosi non denunciati e di conseguenza non registrati. Le motivazioni che alimentano questo fenomeno sono svariate ed oscillano dal perdono all’occultamento del misfatto perché il reo, per esempio, può appartenere ad una famiglia che ricopre una certa importanza sociale e pertanto interessante a non essere coinvolta in pubblici scandali. Il numero oscuro si modifica in base alla tipologia del reato: esso diminuisce, per esempio, per la maggior parte di quei reati che, a causa della risonanza sociale o per gli interventi economici correlati, sono più frequentemente denunciati come l’omicidio o il furto d’auto; mentre aumenta nel caso della violenza sessuale, che viene celata o per vergogna o per paura di avanzare una querela. Altra distinzione si deve fare con la criminalità percepita, cioè quella che il singolo cittadino o la collettività ritengono presente sul territorio. Generalmente, soprattutto in Italia, c’è una percezione della criminalità sovrastimata rispetto al dato reale; questo dipende da fattori individuali e sociali, e ciò accade soprattutto nelle zone dove c’è un alto senso di insicurezza[2]. Un’attenta analisi del fenomeno della criminalità giovanile non può prescindere solamente dall’esame dei fattori che sono alla base di una personalità criminale, ma deve tenere in considerazione anche l’ambiente in cui essa si sviluppa.

Per comprendere la natura delle motivazioni che determinano una condotta criminale nel minore è necessario sia fare ricorso ad un approccio “generalizzato” – rappresentato dalla conoscenza di tutti quei fenomeni legati alla società che influenzano e riguardano contemporaneamente più individui – e/o ad un approccio “individualistico”, che ha l’obiettivo di individuare l’esistenza di una soglia di vulnerabilità propria di ogni individuo, cercando di mettere in relazione il proprio essere con le influenze ambientali stabilendo le loro modalità di ricezione, interiorizzazione, sublimazione e/o rifiuto, nonché le reazioni che ne conseguono. Una valutazione obiettiva, dunque, della condotta criminale necessita di una visione globale che tenga conto simultaneamente tanto delle cause sociali della criminalità, cioè degli squilibri e delle ingiustizie della società, quanto delle diverse modalità di risposta del singolo individuo. È chiaro, quindi, come risulterebbe estremamente riduttivo ed errato ritenere la criminalità quale semplice espressione di fattori biologici, innati o acquisiti dall’individuo, in quanto si escluderebbe qualsiasi responsabilità da parte di una società, piena di contraddizioni e ingiustizie: in tale modo, il delinquente risulterebbe solo una vittima, senza che gli venga riconosciuta alcuna responsabilità della scelta e delle decisioni da assumere per caratterizzare la sua condotta che, d’altro canto, risulterebbe libera da ogni vincolo decisionale personale[3].

Per quanto riguarda le cause ambientali o sociali è possibile affermare che la condotta di un individuo non è immune dall’influenza esercitata dalla cultura, dai costumi, dalla religione e dal livello economico della società, soprattutto nel caso del minore che risulta essere un individuo altamente recettivo e sensibile agli stimoli esterni, molto più facilmente influenzabile dell’adulto, dal momento che egli presenta una condizione psico-fisica in piena evoluzione.

L’ambiente socio-culturale, dunque, in cui avviene la maturazione del minore incide notevolmente sulla strutturazione della sua personalità nonché sulla formazione di un eventuale comportamento antisociale. Si è potuto constatare inoltre che, ove l’ambiente socio-culturale sia caratterizzato da un basso livello di istruzione e da precarie condizioni economiche, lo sviluppo della personalità verso una direttiva antisociale del minore è molto più rapido e certo.

Se teniamo conto del fatto che il primo nucleo sociale che accoglie il minore è rappresentato dalla famiglia ben si comprende come difficilmente un minore si comporti nella società diversamente da come gli è stato insegnato dal nucleo familiare.

Il minore che compie atti devianti, infatti, produce un’istintiva reazione negli adulti, ed è sempre l’implicito segno di un punto di osservazione diverso rispetto alla considerazione del medesimo atto compiuto da un adulto.

Volendo fare una fotografia del fenomeno, osservando i suoi attori che risultano dalle statistiche ufficiali prodotte dall’Ufficio Centrale per la Giustizia Minorile, possiamo notare un cambiamento della tipologia di persone all’interno delle carceri: un dato che suscita preoccupazione è l’aumento di minori di anni 14 denunciati- la denuncia è un momento rilevante della risposta sociale e del controllo della devianza minorile, in quanto esprime la propensione delle istituzioni e dell’opinione pubblica a intervenire e a reagire sul fenomeno- e tale aumento ha avuto il suo più evidente picco negli anni ’90, affermandosi poi successivamente; quello che appare è l’ingresso precoce nel circuito penale. La preoccupazione è data dal fatto che si tratta di ragazzi, forse meglio definibili bambini, di quella fascia d’età che nella nostra legislazione non è perseguibile penalmente, ma che può solo incorrere nelle misure di sicurezza quali il riformatorio e la libertà vigilata oppure, in quanto non punibili, non sono addirittura previsti interventi specifici.

Un’ipotesi di questo aumento potrebbe essere legato ad una maggiore sensibilizzazione sociale circa i problemi dei minori e che quindi comportamenti devianti vengano visti e denunciati; potrebbe essersi quindi verificato un atteggiamento  critico e attivo nella segnalazione di episodi delittuosi.

Oltre ad un aumento delle denunce è anche cambiata la qualità della criminalità minorile, cioè si sono aggravati i reati attribuiti ai minori; gli adolescenti, con sempre maggior frequenza, mettono in atto non solo comportamenti devianti in quanto tali, ma si fanno protagonisti di azioni di una certa gravità. L’aumento più consistente si ha tra i reati contro la persona e la famiglia. Tradizionalmente la criminalità minorile è stata caratterizzata da reati contro il patrimonio, oggi invece si rendono protagonisti di lesioni volontarie, omicidi e violenze sessuali.

Per quel che riguarda gli stranieri, negli ultimi tempi si è notato un notevole incremento della loro presenza nelle carceri o nei Centri di Prima Accoglienza; si tratta di ragazzi provenienti soprattutto dal nord Africa, dall’Est dell’Europa e dai paesi slavi (nomadi), che si rendono protagonisti nella maggioranza dei casi di reati contro il patrimonio e l’economia con furti, scippi e spaccio di stupefacenti; terreno fertile per le loro azioni delittuose sono soprattutto le aree centro-settentrionali. 

 (*) Avvocato penalista -  Perfezionato in Criminologia

domenica 16 gennaio 2011

LA RESPONSABILITA' DEI MEDICI : UN VIAGGIO TRA COLPA PROFESSIONALE E ISTINTO PREDATORIO DI TALUNI PAZIENTI.

Analisi e considerazioni  dell’avv. Raffaele Gaetano Crisileo
E’ recente la notizia che ben diversi medici di un noto nosocomio della zona sono stati raggiunti da informazione di garanzia da parte della Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere  per il reato di “omicidio colposo” causa la morte di un giovane di Marcianise.
Un caso del genere è né il primo né l’ultimo che vede indagati,  per colpa professionale,   medici  che hanno curato  il giovane, deceduto a due mesi dal ricovero.  
Sono recenti altre due notizie :  la prima è che un centro accreditato dell’Unione Europea ha scritto  che nove cittadini dell’ Unione su dieci  hanno manifestato  poca fiducia verso i  sanitari;  la seconda è che,  negli ultimi tempi, le denuncie penale per presumibili  errori dei medici sono aumentati spaventosamente.
Il dilagare di questo fenomeno (cui assistiamo di frequente nella nostra attività di avvocati)  ha spinto gli stessi medici a creare una propria cellula attiva (onde tutelare non solo loro stessi, ma anche  paramedici,  enti sanitari  e compagnie assicurative).
Tante, secondo noi, le cause di questo diffondersi, quali ad es. : l’aumento delle malattie; delle associazioni per i diritti del malato (il cd. Tribunale per i diritti del malato); l’amento della vita media dell’uomo; la maggior diffusione dei mezzi di comunicazione di massa. 
Va subito detto che l’ opera del medico ha per oggetto l’esercizio di un’attività tecnicamente qualificata  attraverso la quale egli si obbliga a dare al paziente  le migliori cure necessarie, che la scienza medica  può offrire. 
Chiarito ciò dobbiamo chiederci  che cosa s’intende per  “responsabilità medica” . Secondo noi  con questo termine ci riferiamo a quel segmento di tutela della salute del cittadino,  in relazione ai rischi che egli corre, quando si sottopone ad un trattamento sanitario
E, poi, la prima cosa che deve fare il medico,  qual è ? Egli deve, chiaramente e correttamente, rendere edotto il paziente sui rischi dell’intervento e sulle alternative praticabili  e,  poi, deve diligentemente prestare la propria opera  (anche quella non inizialmente prevista,  al fine di garantire al paziente un trattamento sicuro).
Mette subito conto evidenziare che, nell'esercizio della professione sanitaria,  il medico può incorrere in vari tipi di responsabilità (penale, civile e disciplinare)  quando viola le leggi e/o regolamenti  oppure quando viola i doveri di servizio oppure, ancora,  quando non rispetta le norme contrattuali  che assume verso il  paziente (cliente).
E’ notorio  che  ci troviamo nel campo della responsabilità penale  (per colpa o per dolo) nel momento in cui il medico  commette  un fatto  previsto come reato dal codice penale o da una legge speciale.
Quanto al dolo o alla colpa,  va chiarito che la responsabilità del medico è dolosa allorché  la violazione è volontaria, come nel caso  del reato di omissione di referto,  dell’ interruzione illecita della gravidanza, del  rivelazione del segreto professionale, della falsità in atti,  del comparaggio, ecc.., mentre la responsabilità è colposa  quando avviene per negligenza, imprudenza, imperizia o per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline.
In sintesi vi è  responsabilità per colpa medica quando un determinato evento ( morte, lesioni ecc. ) anche se non è voluta dal sanitario, è attribuibile ad una sua  cattiva condotta e quando vi sia  nesso di causalità tra le due cose.
Ma spesso ci si chiede che cosa s’intende per “ negligenza, per imprudenza e per imperizia “  
La  risposta è riassumibile così : la  negligenza equivale a  trascuratezza, cioè la mancanza di attenzione; l’imprudenza, invece, deriva da un comportamento avventato (squilibrato) mentre l’imperizia da una scarsa professionalità di fondo.
In definitiva, il medico che affronta un caso di particolare complessità è responsabile solo per “dolo” o “colpa grave”, mentre di fronte ad un intervento semplice egli deve provare che ci sono state delle  complicazioni non possibili a prevedersi. Ciò perché la professione medica, diversamente dalle altre, presenta  dubbi  e complicazioni,  inizialmente non  prevedibili.
Che cosa succede quando ne deriva un danno in sede di prestazione del servizio sanitario ?  Il paziente danneggiato  può agire contro l’ ASL per responsabilità  che     deriva dal contratto,  anche nel caso di “ colpa lieve” e  può agire, anche, verso il medico per responsabilità extracontrattuale, con esclusione, però, del caso di colpa lieve.
In definitiva, pensiamo che sia da condannare quel medico che abbia una scarsa conoscenza della scienza medica e  che non rispetti le regole della sua professione   come siano da condannare coloro che,  per mero e deplorevole istinto predatorio, instaurano giudizi infondati o  presentano denuncie penali  destituite, a priori,  di   fondamento, finalizzate solo ad ottenere il risarcimento danni da enti o compagnie assicurative che  tutela il personale sanitario.
                                                                                                         Avv. Raffaele Gaetano Crisileo

LA LIBERA CIRCOLAZIONE DELL'AVVOCATO IN EUROPA.

Spesso si sente parlare  di “ libera circolazione dell’ avvocato in Europa ”, vale a dire della concreta possibilità di un avvocato italiano di esercitare la propria professione dinanzi a tribunali ed a  corti di altri stati dell’ Europa. Mi piace trattare questo argomento perché, ad agosto 2003, ho avuto un’esperienza personale  specifica, in questo campo,  che, peraltro, ricordo con grande piacere.
Circa cinque anni fa, a ben ricordare, assunsi,  la difesa, dinanzi al giudice penale del tribunale  di Francoforte, di due giovani di Castelvolturno  i quale erano  stati tratti in arresto,   su disposizione dell’ autorità giudiziaria tedesca, per i reati di truffa, falso, appropriazione indebita e sostituzione di persona. Essi, in estrema sintesi,  fingevano di noleggiare auto di grossa cilindrata da una nota società tedesca e utilizzando documenti e carte di credito false, le conducevano in Italia  per avviarle al mercato del riciclaggio.  Fu un ’esperienza professionalmente pregnante : ricordo che mi feci  affiancare da due avvocati tedeschi, Karl Harnak di Francoforte e Roman Ieronimus di Berlino che avevano seguito il progetto universitario “Erasmus” nel nostro Paese; la loro  collaborazione mi fu davvero preziosa.  Questi due legali, su mio espresso incarico, assunsero la funzione di  “ avvocato  concertante” (così come prevede il diritto comunitario), cioè curavano i miei rapporti con l’autorità giudiziaria tedesca, assicurando l’osservanza della legge vigente (che, come constatai, era sostanzialmente differente dalla nostra).La mia attività, complessivamente, durò un bel po’ di tempo e, in costanza di espletamento delle indagini preliminari ( molto più brevi di quelle previste dal  nostro sistema giudiziario), i due giovani vennero  scarcerati, a fronte del versamento di una cospicua cauzione in denaro (cosa, questa, non prevista nella nostra legislazione).    Ricordo anche che, prima di iniziare  la mia attività professionale in Germania, per così dire prima di  “mettere in moto la macchina“ (espressione che usavo spesso, in quel periodo, con i due giovani avvocati tedeschi), mi dovetti professionalmente registrare; lo feci  come “avvocato temporaneamente esercente la professione forense” .Non ebbi alcun problema, in tal senso, perché la direttiva n. 77 / 249 CEE ( recepita nella nostra legge n. 31 / 1982) consente agli “ avvocati comunitari “  di esercitare l’attività forense, in modo occasionale, in un altro stato paese con il titolo d’origine e  senza il preventivo riconoscimento da parte di quello Stato. Per il mio esercizio forense in Germania, come avvocato “comunitario”, ricordo che lessi un “ vademecum “ con le regole da osservare, tra cui operare, in sintonia, con un avvocato tedesco abilitato; cosa, questa, che io feci da subito, anche perché il mio più grande problema, in quell’occasione, fu  la mia assoluta ignoranza della lingua tedesca.Nel tempo, poi,  ho sentito la necessità (mosso anche dalla “curiosità”) di acculturarmi  un po’ nel diritto comunitario; mi sono soffermato a leggere alcune pagine del “Trattato dell’ Unione Europea“ e,  quanto all’esercizio della professione forense, relativamente alla differenza tra il “diritto di stabilimento” e la “libera prestazione dei servizi ”.Come dice la stessa parola, il “diritto di stabilimento ” interessa il professionista che si stabilisce  in uno stato della comunità europea  per esercitare in forma stabile e continuativa l’ attività forense, mentre la “libera prestazione di servizi” è un’attività saltuaria (quella che io, in buona sostanza, esplicai,  nel 2003 a Francoforte).A prescindere dalla direttiva comunitaria in tema di “ stabilizzazione permanente”  degli  “avvocati europei”, i quali,  dopo un esercizio continuativo di  almeno tre anni, nel paese ospitante, possono sostenere la prova attitudinale e, superata la quale, diventano “avvocati integrati”,  debbo dire, con molta lealtà, che sono rimasto sorpreso nel  leggere che l’Italia è stata condannata dalla Corte di Giustizia Europea, perché non ha ancora  fissati i criteri della prova attitudinale, al cui superamento è subordinato  il riconoscimento del titolo professionale d’origine da parte di un avvocato comunitario che vuole esercitare qui, da noi. Nel ritenere che quest’ultimo punto si commenti da solo e, con l’augurio che questa lacuna  venga colmata al più presto, penso che, oggi, alla luce delle direttive emanate (in larga parte recepite dai singoli ordinamenti),  l’ “avvocato europeo” ha raggiunto un ambìto traguardo : poter seguire i clienti anche oltre i confini del proprio Stato e, quindi, di poter esercitare la professione forense, ancorché con le limitazioni previste  (che dovrebbero, secondo me, essere comunque abbattute del tutto !!) in qualunque paese europeo, optando tra l’ esercizio temporaneo e quello  stabilizzato. A parte il fatto che, in ambedue le ipotesi, l’ “avvocato comunitario” può esercitare, con il suo  titolo d’origine, ma sempre in concerto con un avvocato locale, sta di fatto che le differenze tra i due casi sono significative: l’avvocato “ in esercizio provvisorio ”, ad esempio, ha la possibilità (ma non la necessità!) di avere una struttura fissa  nel paese ospitante, mentre l’ “avvocato stabilizzato, invece, ha l’obbligo (per legge) di avere un  proprio domicilio all’estero e, dopo tre anni di attività continuativa, dispensato, così, dalla prova attitudinale, diventerà  "avvocato integrato", e, quindi, potrà iscriversi nell’albo professionale del paese ospitante per esercitarvi la professione a pieno titolo e senza l’ausilio dell’ “avvocato concertante” ( figura, questa, destinata, secondo me, nel tempo, a scomparire).In sintesi,  ritengo che le direttive comunitarie emanate se da un lato hanno generato  aspettative concrete in ambito europeo,  dall’altro lato hanno consentito agli avvocati comunitari, peraltro con una procedura abbastanza snella, di integrarsi nel paese ospitante, rispondendo, così,  alle esigenze di quelli che desiderano avvalersi delle libere prestazioni professionali sul mercato.Alla luce degli attuali  rapporti commerciali tra Stati Europei, vedo sicuramente con interesse e, con fiducioso ottimismo, la fruttuosa integrazione di liberi professionisti di uno stato che intrecciano rapporti con quelli di un altro stato, facendo sì che la professione dell’avvocatura spazi oltre i confini nazionali ed operi in continuo  “regime di libera prestazione dei servizi ”.

venerdì 14 gennaio 2011

DA CASERTACE LA RISPOSTA ALLA CANDIDATURA DELL'AVVOCATO

S.MARIA C.V. I RISULTATI DEL SONDAGGIO. Crisileo primo, dietro di lui Marcello. L'avvocato: "Sorpreso e felice. Potrei farci un pensierino solo se ci sarà un coro armonioso"

SANTA MARIA C.V. –  Cinquanta per cento. Più fo 1600 voti. Santa Maria ha voglia di cambiamento. E’ vero che questi sondaggi via internet hanno il limite di poter essere un po’ falsato dalla frenesia di coloro che  si mettono a cambiare “indirizzo Ip” per votare più volte, ma i voti di Crisileo, al di là della misura aritmetica esatta dei numeri, sono veramente tanti.
Mai in politica, anzi sempre lontanissimo dalla politica, corteggiatissimo dal centrodestra, abbiamo voluto sondarlo. E il risultato è andato al di là di ogni aspettativa.
“Sono davvero entusiasta – dichiara Crisileo a fine sondaggio -  dei risultati del sindaco che state conducendo. Non pensavo di avere tanti amici e tante persone che mi vogliono bene. La cosa mi emoziona e, al tempo stesso, mi fa sorridere.”
Crisileo non si tira indietro, ma potrebbe benissimo farlo  se notasse che un suo eventuale impegno fosse oggetto di “fuoco amico”.
“A questo punto – dichiara -, un pensierino di scendere in campo per fare qualcosa di bene per la nostra comunità mi sta davvero venendo in animo. Nella vita non mi sono mai spaventato, Ci sono tanti problemi da risolvere e fasce deboli che hanno bisogno di aiuto, Potrebbe essere questa per me un’occasione da non sprecare. Se potrò essere l’espressione unanime di un coro armonioso e ben intonato, solo allora mi spingerò sino alla prova finale. Viceversa – conclude - esiterò e mi fermerò. Grazie a chi mi sta esprimendo la sua simpatia e la sua fiducia.”



QUESTI I RISULTATI FINALI DEL SONDAGGIO DI CASERTACE:
Raffaele Gaetano Crisileo
1637
50.7%
Raffaele Marcello
1053
32.6%
Elio Sticco
260
8%
Antonio Mirra
217
6.7%
Giuseppe Stellato
38
1.2%
Piraino
11
0.3%
Pierfrancesco Lugnano
10
0.3%
Esposito Rerif
5
0.2%
Numero di votanti :  3231