domenica 16 dicembre 2018

LA RIFORMA DELLA PRESCRIZIONE E’ ANTICOSTITUZIONALE : CONCORDI MAGISTRATI ED AVVOCATI

Sulla riforma della prescrizione magistratura e avvocatura sono del tutto concordi tra loro nel ritenere che il nuovo ddl  è affetto da diversi profili  di anticostituzionalità. Questa è la novità di questi ultimi giorni. E su questo vogliamo soffermarci un attimo. Ma noi lo avevamo preannunziato  - questo paventato problema di una possibile anticostituzionalità  - sin dalle prime battute in cui avevamo letto il testo di legge. Ora apprendiamo, con soddisfazione, che il Consiglio Superiore della Magistratura, in particolare la sesta commissione, a ben ricordare, ha ravvisato, in questa nuova legge, appunto diversi profili di incostituzionalità, come ad esempio nel cosiddetto “Daspo” per chi incorre in alcuni specifici reati. E per prima cosa, ci dobbiamo soffermare sulla delibera - che sarà data per la votazione a breve - la quale stabilisce che la prescrizione verrà ad essere abolita dopo il primo grado di giudizio. Ciò  perché, a nostro parere, tutto ciò  rischia di trascinare molti processi in una storia incredibilmente e paradossalmente infinita. E perché  affermiamo ciò ? Tanto ci dobbiamo chiedere. Perché  la legge di cui parliamo - a nostro avviso - non sembra rispettare i principi basilari della nostra Carta Costituzionale. Già  l’organismo nazionale dell’avvocatura italiana ( CNF ), infatti, lo aveva di gran lunga evidenziato, peraltro a grosse lettere (ricorrendo anche alla proclamazione di periodi di astensione dalle udienze), un poco di tempo fa, in un proprio scritto che venne trasmesso alla Camera dei Deputati. Ora la novità  - che apprendiamo davvero con piacere – è che anche la magistratura ( oltre all’avvocatura, come abbiamo prima scritto) vede il vulnus della nuova legge in una possibile sua violazione dell’art. 27 Cost. sia riguardo alla presunzione di non colpevolezza, sia alla mancata finalità rieducativa della pena. Sul punto il CSM ( come il CNF ) in un parere scritto - leggiamo - non condivide lo spirito e la ratio della legge. Legge anticostituzionale, possiamo affermare ? E sono davvero tanti a dirlo ! I magistrati, gli avvocati ed i giuristi lo sostengono in modo fermo e da più parti. Poi sarà  comunque la Corte Costituzionale, nel futuro, ad esprimersi quando verrà chiamata a pronunciarsi. Inoltre vi è  un ulteriore punto su cui ci dobbiamo soffermare ovvero il fatto di fermare il termine della prescrizione dopo la sentenza di primo grado - che andrà  a decorrere dall’ entrata in vigore della norma -. Riteniamo che ciò non porterà  alcun beneficio sulla durata dei processi. Al contrario i tempi si allungheranno. Infatti non dimentichiamo che un buon  90 % delle prescrizioni viene dichiarato, infatti, quando non vi è stata ancora sentenza di primo grado. Ed allora cosa succederà ? Secondo noi il primo effetto a medio termine sarà un verosimile ingolfamento della macchina della giustizia. Allora è vero che le leggi le fa il Parlamento ( e guai se non fosse cosi !), ma in uno stato democratico, qual è  il nostro, esse devono conformarsi ai principi costituzionali. Concludiamo affermando che concordiamo con i vertici dell’avvocatura nel ritenere che “qualunque intervento sul processo deve partire da una riduzione dei tempi ottenibile, non certo con lo stop alla prescrizione”. E ciò non è cosa di poco conto !               

venerdì 30 novembre 2018

L’ INTERVISTA DEL GIORNALISTA E SCRITTORE ALFREDO STELLA ALL’ AVV. RAFFAELE G. CRISILEO LA PRESCRIZIONE : PERCHE’ UN TEMA COSI ATTUALE E TANTO DIBATTUTO. ( Redazione Cronache- intervista integrale pubblicata il 29 nov. 2018 ).


Si torna a parlare di riformare di nuovo la prescrizione: è questo uno dei punti più discussi della nostra giustizia. Lei, avvocato, che ne pensa? 

La prescrizione è  un istituto che stabilisce un termine entro cui un reato può essere perseguito dalla legge. Serve per evitare di celebrare processi,  quando lo Stato non ha più interesse a punire il fatto, essendo trascorso troppo tempo e, quindi, non ha senso fare un  processo. 

Ma lei la prescrizione non lo vede  come un “male”  cui far fronte ?  No. La vedo come un principio di civiltà giuridica. 

E la prescrizione negli altri ordinamenti  è  prevista ? 

La prescrizione esiste in tutti i Paesi democratici fondati su leggi scritte. Quando un fatto è troppo lontano nel tempo, lo Stato non ha più interesse  a  sanzionarlo. Quando lo Stato è impossibilitato  a perseguire il reato in tempo utile,  diventa difficile ricostruire una verità, perché gli anni fanno perdere  le tracce del fatto il cui ricordo si allontana dalla memoria. 
Non a caso si prescrivono prima i reati minori a differenza di quelli di una certa gravità  che mai  si prescrivono; penso all’ omicidio volontario aggravato, alla strage, ai crimini contro l’ umanità ecc... . 

Come si calcola il tempo ? 
Il termine si calcola sulla base del massimo della pena previsto nel Codice penale, ed è proporzionato alla gravità del reato. I reati puniti con l’ ergastolo, come l’ omicidio volontario o la strage, non cadono mai in prescrizione.

E’ corretto dire che la sentenza di prescrizione è una pronunzia di assoluzione ?

Molti pensano che  la sentenza di  prescrizione sia  un’assoluzione: ma non è così.  Se il Giudice ritiene che, al momento della intervenuta prescrizione,  il reato non sia stato accertato è obbligato a pronunciarsi per l’ assoluzione. Viceversa, se vi è un “sospetto” di colpevolezza o vi è la prova piena della colpevolezza, deve dichiarare l’ avvenuta prescrizione. 

Ma nel 2017 non era stata già riformata la prescrizione ? Ed ora di nuovo si riparla di riforma ? 

Infatti. Infatti. Nel 2017 una legge dello Stato (chiamata Legge Orlando) ha sospeso per un tempo fisso (al massimo 18 mesi) la prescrizione,  dopo la sentenza di condanna di primo grado e dopo la condanna in appello. 
Non conosciamo però ancora i risultati pratici di  questa riforma in quanto, essendo  essa per definizione una norma di diritto sostanziale penale, non è retroattiva e, quindi,  non si può applicare ai reati commessi prima che sia entrata in vigore. 
Dobbiamo attendere ( e penso un poco di tempo )  per conoscere gli effetti e le ricadute che essa va a procurare sul sistema, per cui è necessario che i processi arrivino a sentenza definitiva. 

E lei, avvocato, cosa ne pensa della nuova recente riforma che è in esame ? Ed anche della recente riforma dell’Ordinamento Penitenziario ? 

Secondo me la nuova riforma della prescrizione, di cui si discute di nuovo e tanto, è una proposta sorretta da una logica non accettabile.  Concordo con chi l’ ha definito : «Un utilizzo del diritto penale improprio e pericoloso, non più come strumento di accertamento di fatti secondo quell’iter di razionalità che è il processo penale, ma come strumento di lotta a fenomeni sociali che si assumono sistemici ».
Penso, poi,   che, in punto di Ordinamento Penitenziario, si sta stravolgendo  la fisionomia dell’originaria Legge delega. Tutto ciò, ritengo, in nome di una pena certa  ed intesa solo come carcere certo. Tutto ciò’, a mio avvviso,  porta ad una  indebolimento della discrezionalità del Giudice. E questo non lo vedo giusto. 

Ed allora lei che cosa pensa che bisogna auspicare ? 
C’è da sperare  che un confronto dialettico con magistratura, avvocatura e mondo universitario e dottrinale riesca a immaginare risposte adeguate e concrete  che possano assicurare, in tempi rapidi,  una piena e completa funzionalità alla complessa macchina processuale  e, al tempo stesso, una piena salvaguardia delle garanzie costituzionali. Tutto ciò, in buona sostanza, a partire dal principio  di non colpevolezza e dalla primaria finalità della pena: quella rieducativa. Principi fondamentali, questi, in una democrazia. 

Quali sono, secondo lei, i possibili rischi di soluzioni diverse ? 

Io penso che oggi un ennesimo intervento mirato solo sulla prescrizione aggrava solo, ed esclusivamente, la posizione dell’imputato, senza portare altri benefici di sorta, ma non riesce a tutelare le persone offese.

Ma questo suo pensiero come lo raffronta con la realtà dei fatti e come lo supporta concretamente ? 

Mi rendo conto che questa mia posizione resta mia e non è da tutti condivisa, specialmente in questo particolare momento storico. Ma io penso, al contempo, che sia opportuno e necessaria far ricorso a dei dati certi. E i dati certi, da cui partire, ci sono ! E come se non ci sono ! Le proposte, qualunque esse siano, infatti, non possono prescindere  appunti da dati  certi, che, purtroppo, sono i grandi per cosi dire “ non presenti”   in questo mega dibattito. Il primo dato certo, dal quale credo che non si possa prescindere, riguarda il numero delle prescrizioni. 

Lei a quali dati si riferisce? Ce lo può chiarire meglio questo passaggio ? 
Sfogliando delle pagine cui farò riferimento,  questi dati vengono fuori. Mi riferisco a  recenti statistiche del Ministero della Giustizia  da cui emerge che, negli ultimi dieci anni, le prescrizioni sono state ridotte quasi del 40%. Pensate quasi del 40 % ! 
Ciò’ vuol dire che i processi dichiarati prescritti, in sintesi, sono al di sotto del 10%  di quelli definiti. E non solo ! Pensate che questo dato è stato ulteriormente abbassato nel 2017 nel quale anno questi procedimenti prescritti, in cassazione, sono stati soltanto 670, pari all’ 1,2% del totale. E tutto ciò è estremamente significativo. 

E questi dati, secondo lei, cosa dimostrano ? Cosa stanno a significare nel complesso ? 
Questi dati, dal mio punto di vista, confermano questa  certezza : che sia sbagliato pensare che la prescrizione sia il buco nero in cui precipita la giustizia penale. Un dato invece è sicuro: la scure della  prescrizione oggi, rispetto ad ieri, colpisce sicuramente molto di meno. Un particolare esempio, in questa direzione, è l’epilogo della vicenda “Eternit”; caso, questo, spesso utilizzata per rappresentare l’effetto sfigurante dalla prescrizione. 
È sufficiente leggere con attenzione il dispositivo di questa  sentenza della Corte di Cassazione, che ha dichiarato il reato estinto per prescrizione, maturata anteriormente alla sentenza di primo grado. 
Con essa vogliamo dimostrare che, al contrario di quello che si pensa, è evidente, invece, che l’invocato blocco della prescrizione, dopo la sentenza di primo grado, non sarebbe in grado di proteggere le vittime da questi esiti processuali, considerato che l’estinzione del reato prima della sentenza di primo grado travolge anche le statuizioni risarcitorie. 

In definitiva lei cosa pensa di questo eventuale blocco della prescrizione della sentenza di primo grado ? 
L’interruzione definitiva della prescrizione, dopo il primo grado di giudizio, oltre a ledere  l’imputato sotto il profilo del diritto a un giusto  processo, lascia irrisolto il problema della prescrizione, intervenuta nel corso delle indagini,  e non appare in grado di tutelare appieno la persona offesa.

E’ vero che, abolendo la prescrizione, ci dovrebbero essere processi penali più veloci ? 
Secondo me non è cosi ! Si pensa che abolendo prescrizione,  dopo il primo grado di giudizio, comporterebbe  una sorta di effetto trickle- down (il cd. effetto a goccia dall’alto)  per il quale diminuirebbero le impugnazioni, verrebbe incrementato l’accesso ai riti alternativi e si ridurrebbe il numero dei dibattimenti celebrati.
Bisogna dire, rimanendo sul terreno della prescrizione, che l’impostazione che abbiamo definito “trickle- down”  non è veritiera e  non è accettabile. 
Proprio per questo riteniamo che l’abolizione della prescrizione dopo il primo grado, non accompagnata da interventi in grado di incidere sulla ragionevole durata del processo, non produrrà accelerazioni dello stesso processo, che è influenzata da altri elementi sui quali  avvocatura e magistratura devono  ragionare insieme.

Ma quali sono i tempi reali della prescrizione ?
Se quello che abbiamo detto è vero non si può dimenticare che la prescrizione ha subito un’incisiva rimodulazione con la Legge Orlando. In particolare, la modifica dell’art. 159, comma 2, nn. 1) e 2) prescrive che la prescrizione rimane sospesa per complessivi tre anni dopo la sentenza di primo grado. Inoltre, tra il 2008 e il 2016, i termini di prescrizione sono stati raddoppiati per tutta una serie di reati che non sto qui ad elencare.

Ed allora quali sono i possibili correttivi ?
Io penso che, alla prescrizione,  non può  essere affidato il compito di presidiare la ragionevole durata del processo. Non è là   che risiede la garanzia contro un processo di durata irragionevole. Non possiamo trascurare che una delle ragioni sottese alla prescrizione è correlata al diritto a non essere giudicati a distanza di molti anni dal fatto. Per questo  concordiamo con i tanti che ritengono che, al momento,  la questione fondamentale sia quella di fare luce tra le «pesanti nubi che si addensano attorno al sistema penale del nostro Paese».

sabato 6 ottobre 2018

Libertà ed autonomia costituzionale all’avvocato



E’ di questi giorni la notizia che il Consiglio Nazionale Forense in un documento intitolato  "L'avvocatura e la Costituzione" ha presentato una   proposta di legge che punta ad ottenere un rafforzamento del ruolo dell'Avvocato nella nostra Costituzione ed il riconoscimento di una sua piena funzione pubblicistica. 
Ciò – è auspicabile - avvenga  a mezzo di  una novella di una norma costituzionale, l’art. 111. 
Ma in realtà cosa vogliamo, noi avvocati ?  Il nostro obiettivo, in pratica,  è quello che venga espressamente  prevista l’autonomia  della nostra funziona pubblicistica di difensore,  nel  processo dove siamo chiamati ad assicurare la necessità della difesa tecnica dell’imputato. Una funzione sicuramente insostituibile anche, e soprattutto, nell’epoca contemporanea connotata dalla priorità dei diritti del cittadino.
La Carta Costituzionale, d’altronde,  fa già molti riferimenti al ruolo ed alla funzione dell’avvocato riconoscendo che " La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento" e che "Sono assicurati ai non abbienti i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione". Ma ciò, a nostro parere, è insufficiente. 
Riteniamo, perciò, che dell’idea che la funzione svolta dall’avvocato debba essere ulteriormente valorizzata.
Ecco perciò giustamente il Consiglio Nazionale Forense, in questi giorni, ha avanzato la proposta di introdurre nella Costituzione una specifica norma pro-avvocatura, novellando ad esempio l’art. 111 e dando cosi al dettato costituzionale una sua completezza che riconosca appieno non solo la complessità del ruolo dell'avvocato, ma anche la sua  posizione di  libertà e di indipendenza, in linea con la deontologia professionale. 
Tutto ciò perché la  vita umana oggi è attraversata da un continuo susseguirsi di leggi.
In un quadro del genere  il ruolo dell’avvocato è utile ed indispensabile da un punto di vista sociale e nel contempo, pensiamo, debba  essere maggiormente riconosciuto da un punto di vista costituzionale. 
L’avvocato, infatti, insieme  al giudice, si dedica  all’ interpretazione della legge che cambia continuamente ed ambedue -applicando il  principio di legalità -tentano di dare “certezza al diritto”.
In questo delicato compito l’avvocato non deve perdere mai di vista l’obbligo morale, costituzionalmente sancito,  che gli appartiene : tutelare i diritti umani inviolabili. Speriamo che quanto auspichiamo venga realizzato al più  presto  e che l’avvocatura italiana non sia costretta ad un’eclatante protesta pubblica, come avvenne dopo l’ approvazione  del D.L. 223/2006 (il c.d. Decreto Bersani), al punto che allora sfociò in una lunga astensione dalle attività di udienza.
Tutto ciò perché é nota a tutti  la consapevolezza della drammatica situazione in cui versa la giustizia italiana. E  questo è il merito del Consiglio Nazionale che ha portato all’attenzione dell’opinione pubblica la  funzione sociale e costituzionale svolta dall’avvocatura italiana. 
Da ultimo ricordiamo sia il Presidente  dell’Associazione italiana dei costituzionalisti (il quale di recente auspicava che il prossimo Parlamento avrebbe dovuto occuparsi della funzione dell’avvocato ) sia  il Presidente del Consiglio nazionale forense che  ha sollecitato la politica a intervenire sul rafforzamento, in Costituzione, del ruolo dell’avvocato,
E tutto ciò è un richiamo sui temi della giustizia che meritano continua attenzione e sui quali non si può mai abbassare la guardia.
In sintesi, se si parte dal principio che rafforzare la posizione dell’avvocato può essere un beneficio anche per la stessa magistratura e con questo beneficio si arriverà a migliorare l’intero pianeta giustizia, tutti saranno ben consci che, su questa nuova piattaforma, non vi sono controindicazioni  nel riconoscimento esplicito del ruolo del difensore.
Si tratta questa di un peso notevole, per l’avvocatura che sicuramente saprà metterlo a frutto.
                                                                                        avv. Raffaele G. Crisileo

venerdì 7 settembre 2018


IL NUOVO DISEGNO DI LEGGE ANTICORRUZIONE NASCE CON DUBBI  DI COSTITUZIONALITA’ .

Nel disegno di legge anti-corruzione, preannunciato dal governo  in questi giorni, ancora in fase di studio, ed in procinto di presentazione definitiva ed approvazione, è contemplata tra l’altro una norma che qualifica come «non punibile» la condotta di chi «si autodenuncia spontaneamente» per aver commesso il reato di corruzione.
Tutto ciò  a condizione che egli lo faccia «prima della iscrizione del suo nominativo nel registro di notizia di reato della Procura della Repubblica »  e, comunque,  «entro tre mesi dalla commissione del fatto».
E non solo ! A condizione che egli dia  elementi «utili» alla prova della sussistenza del reato e all’individuazione di altri corresponsabili.
È questa la  prima determinante novità prevista nel disegno di legge ( cui è  impegnato un gruppo di lavoro ) ed è formata  solo da pochi articoli.
Orbene se l’ipotesi - contenuta nell’art. 1 del disegno di legge, vale a dire la «non punibilità» per chi si autodenuncia - passa, è una novità  davvero senza precedenti per il nostro Codice. Ma la prima domanda che ci dobbiamo porre è  questa:  come può qualificarsi, in punto di diritto, una esimente del genere ? 
La risposta, in questa prima fase, potrebbe essere una sola : l’aver introdotto  la novella  ex art. 323-ter del codice penale titolata “ cause di non punibilità », collegata alla commissione «dei fatti - reato previsti dagli articoli 318, 319, 319-quater, 320, 321, 322-bis, e limitatamente ai delitti di corruzione, di induzione indebita r 346 bis ». La norma - prima face - dovrebbe  estendere  la sua applicazione come “ causa di non punibilità “al pubblico ufficiale, all’incaricato di un pubblico servizio sempre alla stessa condizione : che essi si autodenunciano all’AG - entro tre mesi o prima dell’indagine ed è subordinata alla «messa a disposizione dell’utilità percepita»  - nonché a fornire di elementi utili per individuare gli altri corresponsabili.
Ma è costituzionale una norma del genere ? Questo ci dobbiamo chiedere. Secondo noi non lo è perché il ddl, in prima lettura,  nasce affetto da una patologia. Riteniamo che il testo -  con cui si vorrebbe esonerare da responsabilità  penale chi pone in essere una condotta comunque penalmente - ha  tutta l’aria di essere piu’ che un testo normativo, una presa di posizione, quasi l’affermazione di un principio che chi collabora resta impunito e il tentativo di imporlo per le vie della giustizia penale. E, forse “presi“ dalla contingenza attuale e dalla pur condivisibile intenzione di stigmatizzare certe condotte  – ammesso che sia necessario – condotte diffuse  nel nostro paese, il legislatore sembra stia imboccando  la strada di un intervento normativo a forte rischio di incostituzionalità.
E spieghiamo il perché, dal nostro punto di vista. 
Sappiamo bene che esistono diverse forme di premialità e di non punibilità, ad esempio nel diritto tributario, nella tutela della concorrenza e cosi via.
Ma vale la pena ricordare che l’art. 112 della Costituzione stabilisce espressamente che il Pubblico Ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale; ergo l’inserimento di una causa speciale di non punibilità contrasta sicuramente con un dettame di rango costituzionale.
La bozza del ddl prevede, poi, anche eventuali  casi di strumentalizzazioni come nell’ipotesi di chi voglia “denunciare un rivale”.
Ebbene in una evenienza del genere la causa di non punibilità non si applica quando vi è prova che la denuncia sia stata premeditata a fronte della commissione del reato.
Un altro punto che non condividiamo e che, a nostro avviso, potrà  essere oggetto di forti polemiche  riguarda  l’innalzamento delle pene per i reati di corruttela  e per quelli di traffico di influenze illecite.
La riflessione da fare, a questo proposito, è la seguente : ma a che serve inasprire ulteriormente le pene, se quelle attuali, già  innalzate ben due/tre volte, con distinte riforme, non hanno sortito effetto  di sorta ? 
Forse si vuole, ancora una volta, usare il regime delle pena come deterrente e con una funzione meramente retributiva ? 
Ed allora dove va a finire la sua funzione social preventiva e rieducativa ? 
Altra innovazione la cogliamo nel divieto 'perpetuo' a partecipare agli appalti pubblici, per chi subisce una condanna superiore  ai due anni di reclusione per specifici reati contro la P.A.. 
E poi l’ulteriore novità’ che “ la riabilitazione non estingue la pena accessoria», cioè non fa venire meno l’interdizione.
In altre parole, il provvedimento de quo renderà impossibile, per una persona condannata in via definitiva per corruzione, avere rapporti  per tutta la vita con la pubblica amministrazione.
L'imprenditore condannato, ad esempio, non eviterà il Daspo nemmeno dopo aver scontato positivamente la pena con l'affidamento ai servizi sociali e nemmeno essere stato riabilitato. 
Ed anche questo passaggio sarà e dovrà  essere oggetto di forti critiche perché  svilisce un importante istituto qual e’ quello della riabilitazione che non avrebbe più  ragion d’essere. 
Non comprendiamo, però, ancora la posizione di chi andrà  a beneficiare della sospensione condizionale della pena oppure di chi ha optato per il rito alternativo del patteggiamento se potrà essere colpito da Daspo e dall'interdizione dai pubblici uffici. 
Se questo è  il quadro, secondo noi, il giro di vite  con l’irrogazione di un  “Daspo ad aeternum” è certamente discutibile e stravolge, anche in questo caso, la funzione social preventiva della pena, dando spazio solo ed esclusivamente alla funzione retributiva della stessa. E poi  l’annunciata estensione della figura dell’agente sotto copertura per contrastare i reati contro la Pubblica Amministrazione  prevista contro mafia, narcotraffico e terrorismo) e quelle sulla perseguibilità d’ufficio per alcune ipotesi di reato, secondo noi, sarà  oggetto di un duro confronto perché le riteniamo misure “azzardate”. 
Siamo d’accordo con quella che è stata definita : “Lotta senza quartiere a mafie e corruzione, ma non dobbiamo dimenticare che si è innocenti fino al terzo di giudizio” e che va rispettata la Carta Costituzionale. 
Da ultimo segnaliamo che tra i sei articoli del disegno di legge c’è anche un’ulteriore novità : sparisce il reato di millantato credito e viene potenziato il traffico di influenza.
Cosa cambia? Questo ci dobbiamo chiedere.
La pena attualmente prevista è da uno a tre anni di reclusione  e gli indagati, per questa ipotesi di reato,  non possono essere soggetti  ad intercettazione. Nel disegno di legge del Governo invece si prevede di cancellare il millantato credito (che ha una pena da 1 a 5 anni) e di innalzare la pena del traffico di influenze (da 1 a 5).
La conseguenza sarà che, per questo tipo di reato, si potranno usare le intercettazioni.
Infine sarà eliminata la procedibilità a querela quanto alla corruzione tra privati.
Ma anche sulla stessa figura dell'agente sotto copertura, noi penalisti abbiamo perplessità  e qualche riserva è stata avanzata anche da parte dell'Associazione Nazionale Magistrati. 
In definitiva,  il nuovo disegno di legge anticorruzione si reggerebbe su due pilastri: il cd. "Daspo" per i corrotti da un lato e l'estensione della figura dell'agente sotto copertura anche ai reati contro la Pubblica amministrazione dall’altro.
Si noti bene che attualmente questa figura  è limitata a reati di mafia e traffico di stupefacenti.
Ma, in conclusione, tutte le riforme vanno fatte e si possono fare, ma solo se rispecchiamo i dettami costituzionali.
Serenamente affermiamo che qui versiamo, per taluni versi, in un percorso di dubbia costituzionalità.
In conclusione è vero che il reato è il patologico della società ed il diritto penale è diritto  vivente, ma dobbiamo stare attenti.
Attenti perché  il diritto non può essere condizionato dall’opportunità  perché  ciò  fa venir meno la certezza del diritto che è il pilastro su cui si regge una società democratica. 


avv. Raffaele Gaetano Crisileo 

sabato 7 luglio 2018

Verso una pena più umanizzante.


La nostra storia e la nostra cultura ci deve allontanare da un concetto della pena che sia solo quello di punire chi ha commesso un reato,  ma il suo vero fine  deve essere quello della riabilitazione e della rieducazione. Una duplice riabilitazione: prima  per se’ stesso e poi per la società in cui vive ed in cui ha (e dovrà avere) relazioni. Allo stesso modo occorre creare le condizioni per prendersi cura, e con scrupolo, delle vittime del reato.
Ciò significa che amministrare la giustizia non vuol dire solo “mettere le mani” sul colpevole e pronunciare soltanto nei suoi  confronti una sentenza di condanna, ma  significa innanzitutto mettere al primo posto, il rispetto “la dignità”, i “diritti della persona umana”, sia vittima che reo; questo senza discriminazione alcuna. 
Al di là delle  norme che rischiano soltanto  di far rispettare la  legge senza convinzione interiore, è importante puntare l’attenzione soprattutto su un ulteriore importante aspetto che consiste nella “riparazione del danno provocato”. 
Ciò non solo da un punto di vista penale, ma anche sotto il profilo della “contrizione interiore dell’uomo”. In tanti pensieri di giuristi e di filosofi si riscontra “una  mancanza di proporzione, necessaria, tra il delitto compiuto e la pena, per cui non si  può rimediare solo con la sua funzione retributiva  senza quella rieducativa. Bisogna certamente dare giustizia alla vittima del reato, ma non si deve “giustiziare” l'aggressore con l’isolamento”. 
E’ questo della rieducazione (anche interiore) deve essere  il principio della pena. Se cosi non fosse significherebbe abdicare alle nostre  origini culturali, morali  e poi  alle nostre radici umanitarie. 
Bisogna  spazzare via pregiudizi e preconcetti che conducono verso una sensibilità che oggi è poco presente, nella quale non si fa altro che credere che i delitti siano risolti quando chi li ha compiuti viene condannato e non si presta la giusta attenzione allo stato  in cui si vengono a trovare sia  le vittime che i rei.
E tutto ciò cosa può significare? L’unica risposta possibile è ritenere che si incorre in errore  l’ identificare la riparazione che si può dare alla vittima solo con la punizione di chi ha commesso il reato. Perché ciò  porta  a confondere la giustizia con la vendetta; e la vendetta, come la storia ci ha insegnato, aumenta soltanto la violenza.
E del resto inasprire le pene non risolve i problemi sociali di una collettività sofferente né diminuisce  la criminalità. E non solo! Ma ha spaventose ricadute sulla società: in primis le carceri sono sovraffollate. Ed allora bisogna fare in modo che le persone che s’imbattono (specialmente quelle per la prima volte) in condanne cambino interiormente e la pena per loro sia una svolta, una riflessione sui veri valori della vita umana. Ecco le pene meno afflittive. Il tutto con lo scopo di migliorare ed educare l'uomo che deve riparare al danno causato senza essere schiacciato dal peso delle sue miserie.
In definitiva non basta avere leggi giuste, ma è necessario formare persone responsabili e capaci di osservarle. 
Il “perdono responsabile” in definitiva non diminuisce la necessità di correzione, propria della giustizia, né prescinde dalla necessità della conversione personale, ma una “giustizia umanizzante” può essere realizzato anche e soprattutto attraverso  misure alternative che consentano al perdono di raggiungere una dimensione istituzionale.  Concludo con le parole del Procuratore Capo di Bologna, il dott. Giuseppe Amato, che condivido appieno che afferma “ La vita ha delle sue tragicità per cui non può essere  criticata sulla base di considerazioni emozionali fatte ex post da chi non le ha vissute”. 


avv. Raffaele G. Crisileo 

giovedì 14 giugno 2018

Il mio ultimo libro in via di pubblicazione :“ Eloquenza, persuasione e comunicazione”.


“ Eloquenza, persuasione e comunicazione”,  è questo il titolo dell’ultimo lavoro in corso di pubblicazione che reca la mia firma  congiuntamente a quella di un giovane professore sammaritano di lettere classiche antiche ed esperto della letteratura latina e greca. Abbiamo voluto fare uno studio congiunto, un confronto che si è tradotto in un opera in cui   abbiamo analizziamo due mondi, in modo parallelo, nel senso plutarchiano del termine  quanto all’arte oratorio ed alla figura dell’avvocato penalista. Da un lato siamo partiti con l’analisi del mondo  antico fino ad arrivare a quello di oggi. Dall’arte oratoria dei più antichi retori ed avvocati del mondo ellenico come Demostene e Lisia per arrivare a quello romano con Cicerone e Cesare, per poi giungere a trattare il tema  della comunicazione e dell’eloquenza,  come strumento prettamente tecnico per dialogare con il Giudice, per rapportarsi con la Corte e trasmettere loro i saperi dell’avvocato al fine di  orientarli nella decisione che è un parto, un travaglio, una gestazione. Ho ritenuto di dare il mio contributo, nel libro, da avvocato, come è concepita la funzione e il suo ministero oggi; una professione - vocazione che trascina nel mondo della sua sofferenza. Un avvocato, come sottolineo  nel libro, che, secondo me, deve essere uno psichiatra e uno psicologo nello stesso tempo perché  il penalista è una persona che lavora con la mente e sulla mente. E con la mente, ne sono convinto, non si arriva attraverso magie o stregonerie, ma a  mezzo di moduli, di percorsi che sono una serie di possibilità che ci  consentono di capire e di percepire la situazione che si presenta dinanzi a noi quando siamo chiamati a difendere una persona in Tribunale. E i moduli, debbo sottolineare, sono l’arte oratoria di un tempo (ovviamente in chiave moderna e tecnica), poi la persuasione e infine la comunicazione. come il saper parlare in pubblico. Ciò perché - come ha sottolineato Giuseppe Papale nel testo  - da duemila anni,  la giustizia penale è orale ed il processo penale è caratterizzata da oralità ed immediatezza. In un processo avvengono fatti imprevedibili che richiedono decisioni improvvise ed immediate. Quindi la improvvisazione,  insieme ad una sorta di atteggiamento quasi istrionico, sono prerogative, secondo me, che appartengono al mondo dei penalisti in generale  (mi riferisco a quelli dei Fori  delle nostre terre, il Foro sammaritano e quello napoletano, antichissimi ambedue per cultura, formazione, per l’ appartenenza a loro di nomi illustri  sia per tradizioni che per radici). 
Nel nostro libro scritto a quattro mani e di cui questa è  una micro anteprima, si evidenzia che il processo penale sia nell’antichità (al tempo dei greci e dei romani)  sia  oggi, è un vero teatro in cui il penalista, come il Demostene di allora,  rimarca Giuseppe Papale, è un professionista che deve sempre dimostrare le sue doti linguistiche ed oggi anche le sue doti tecniche perché,  diversamente da un tempo,  la prova si forma a dibattimento. 
I più grandi avvocati di ogni epoca, e la scuola e la tradizione napoletana e di Terra di Lavoro, h anno sempre sostenuto che essi non sono portatori di una verità, ma  di un forte convincimento delle tesi che sostengono. E il tutto va in una sapiente miscela di determinazione, di sicurezza e di preparazione. E “i penalisti devono essere capaci non solo di persuadere, ma anche di stare in silenzio e di ascoltare”. E questo principio è valido dall’ antichità ad oggi perché  il difensore è rimasto sempre lo stesso. Perché il suo scopo è sempre il persuadere, perché il luogo è sempre il Foro  (il Tribunale), da Demostene a Lisia, da Cicerone a Quintiliano a Seneca,  a Cesare, da De Marsico a Porzio fino ad oggi. Perché - come ha detto in una recente lectio magistralis l’avvocato napoletano Vincenzo Siniscalchi - lo strumento è sempre la parola. Quello che è cambiato - dico invece io - sono i clienti che oggi, rispetto al passato, chiedono sempre di più.  Vengono nei nostri studi già  acculturati, perché  internet ha fatto la sua parte. Una mia riflessione al riguardo: purtroppo oggi le relazioni con il cliente sono  sempre più difficili. 
Nel nostro libro un tema particolarmente a cuore è stato quello della comunicazione perché  ritengo che la professione dell’avvocato sia un vero e proprio dibattito nell’ambito giuridico che avviene attraverso l’oratoria, intesa come proprietà  di linguaggio, come capacità di utilizzare riferimenti al momento di dover argomentare e con capacità  di adattare il registro. 
In definitiva l’oratoria apporta forza e sicurezza all’avvocato, tanto in fase di giudizio che di processo. 
Da un recente sondaggio è risultato che oltre l’ 80% dei clienti,  in cerca di  assistenza legale, ha dichiarato di considerare, come criterio di scelta, il come l’avvocato penalista parla e il come si esprime. 
Ciò significa che la comunicazione tra le parti migliora quando il cliente è portato ad instaurare una relazione emotiva con il proprio avvocato. 
In ciò ha un ruolo determinante anche la persuasione, come atto automatico, in quanto è una forza potente e gli elementi chiave sono l’uso di parole, di simboli e di immagini. 
Non vi è  dubbio che la persuasione sia  lo scopo della nostra vita professionale. E’ un miracolo che, quando si verifica, ci riempie di gratificazione. 
Mentre l’arte della persuasione ha interessato perfino gli antichi greci con la nascita della retorica,  ci sono differenze significative tra come si applichi oggi la persuasione  rispetto al passato. Ciò in quanto la comunicazione persuasiva, oggi, viaggia molto più rapidamente ed in modo molto più sottile rispetto al passato. Essere dei buoni persuasori è  un’ arte : non vi è una via preparata, ma ognuno per arrivare alla persuasione deve creare da sé la lingua, il metodo e l’arte. In definitiva è un fatto intellettuale ed emotivo perché  il cuore conosce le ragioni che le ragioni non conosce (diceva un filosofo greco). Quante sono le emozioni che albergano nell’animo del Giudice che possono influire su questo fenomeno miracoloso della persuasione. 
Ma le ragioni  del successo dell’ avvocato - come abbiamo concluso nel libro io e Giuseppe Papale – è l’eloquenza e millenni di storia lo confermano. 
In definitiva concordo con Goleman il quale ha affermato che il successo dipende dall’intelligenza emotiva e non solo dagli studi accademici. 
Sabbiamo bene che un avvocato che conosce tutte le leggi, se non è in grado di comunicare efficacemente, limita di molto la sua professionalità.  
Un suo più modesto collega che invece ha imparato l’arte dell’eloquenza avrà  sicuramente maggiore successo. 
Questo è il messaggio che io e Giuseppe Papale abbiamo voluto trasmettere con il nostro libro e speriamo di esserci riusciti. 

Raffaele G. Crisileo 

domenica 27 maggio 2018

IL PAZIENTE PSICHIATRICO E IL PROCESSO PENALE


Ieri l’altro, il 24 maggio, al Salone degli Specchi del Teatro Garibaldi in Santa Maria Capua Vetere si è svolto un convegno su scala regionale sulla psichiatria oggi,  a  quarant’anni dalla entrata in vigore della Legge Basaglia. In buona sostanza una sorta di bilancio con considerazioni, e riflessioni. Ho avuto il piacere di essere stato invitato, bontà degli organizzatori,  come relatore, per trattare un tema attuale e, secondo me, di ampio respiro riguardante la mia professione di avvocato penalista, dal titolo “ Il paziente psichiatrico ed il processo penale”. Ho subito premesso dicendo che la centralità della relazione, tra il paziente psichiatrico e il processo penale, sopravvive ancora oggi nei dibattiti  nonostante siano trascorsi  quarant’anni dalla emanazione della cd. Legge Basaglia (L. 180/1978). La legge che dispose  la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari ( O.P.G. ) i cd. manicomi e regolamentò il T.S.O. (Trattamento Sanitario Obbligatorio), facendo dell’Italia il primo e, ad oggi, unico paese al mondo ad aver abolito gli ospedali psichiatrici. La rivoluzione culturale, sfociata nell’emanazione in quella legge, si fondava sull’idea di restituire dignità ai pazienti psichiatrici, in un’ottica di risocializzazione del soggetto ritenuto socialmente pericoloso. Tuttavia, però, ho sottolineato, nel mio intervento,  che  il processo di rinnovamento non è stato  ultimato sebbene i più recenti, ma debolissimi,  interventi normativi in materia, quali la Legge n. 9/2012 e la  n. 81/2014 che hanno determinato il definitivo superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (O.P.G.), con l’istituzione, su tutto il territorio nazionale, delle Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (R.E.M.S.). Strutture, queste ultime, con connotazioni differenti rispetto agli O.P.G., perché hanno una gestione ad esclusiva competenza sanitaria con  funzioni terapeutico-socio riabilitative in favore di autori di reato affetti da disturbi mentali, che ne inficiano, in tutto o in parte, la capacità di intendere e di volere. Secondo me, però,- ho tenuto a dire con chiarezza all’interessato uditorio presente– che  la chiusura degli O.P.G.  non è sufficiente se non sarà accompagnata da una riforma del codice. Specie in relazione ai concetti di imputabilità, pericolosità sociale e misure di sicurezza. In caso contrario, si rischia solo di spostare il problema su altre strutture che hanno nomi differenti, ma svolgono  di fatto le stesse funzioni dei vecchi O.P.G., cosa, questa,  che sta realmente avvenendo. Penso agli artt. 219 e 222 del c.p., che disciplinano proprio gli O.P.G.. Ed allora, in sede di mio intervento, mi sono posto questa domanda : “Ma queste norme come vanno coordinate con la nuova disciplina che sostituisce appunto gli O.P.G. con le R.E.M.S.” ?
Questo tema, ho detto a chiare lettere, è stato oggetto anche della recente delega legislativa di cui alla Legge n. 103/ 2017 (cd. Legge Orlando), che ha presentato  uno specifico punto relativo alla disciplina delle misure di sicurezza e del ricovero presso le R.E.M.S..
Ma anche a questo riguardo – secondo me - nulla si è fatto e si sta facendo, da parte del legislatore, per ridare dignità al paziente psichiatrico coinvolto in un procedimento penale.  
Un altro aspetto da non sottovalutare, ho evidenziato, è la fattiva collaborazione tra la magistratura e gli operatori delle R.E.M.S. in quanto numerosi Uffici Giudiziari si attivano in questo senso segnalando la insufficienza quanto ai posti disponibili nelle nuove dette residenze che si trovano nel Circondario del Tribunale o, comunque, nel Distretto di Corte di Appello.
In diversi casi, eppure, queste problematiche attuative riguardano procedimenti concernenti gravi delitti contro la persona (ad esempio, casi di omicidio ecc…) commessi da soggetti pericolosi.
Un altro aspetto specifico, che ho ritenuto di trattare, anche se in modo fortemente critico, è stata la relazione tra la infermità mentale e la responsabilità penale che, nell’ambito di un procedimento penale, vi è con l’accertamento di una patologia psichiatrica,  effettuato mediante una perizia psichiatrica disposta dal Giudice.
Ma, attenzione, il Giudice la dispone solo a seguito di una consulenza di parte dell’imputato al fine di  determinare se questi, al momento della visita, sia in grado di partecipare coscientemente al processo e se, all’epoca dei fatti,  la sua capacità intendere e di volere fosse presente o compromessa e se egli era in grado  di comprendere il disvalore delle sue azioni.
In altre parole l’analisi della capacità di intendere e di volere dell’imputato è finalizzata ad inquadrarlo da un punto di vista dell’imputabilità, secondo la disciplina del nostro codice  penale che individua il presupposto della responsabilità nell’imputabilità.
In questo contesto –  ho ribadito – che si inserisce l’applicazione eventuale delle misure di sicurezza da parte del Giudice, dopo l’accertamento della pericolosità sociale del soggetto autore del reato. Vero è che  l’applicabilità di una misura di sicurezza è subordinata all’accertamento che sia altamente probabile che egli commetta altri reati. In poche parole solo in questo caso  si applicano le misure di sicurezza; e  questa prognosi è disancorata dal giudizio di responsabilità.
Ed allora, un’ autore di un reato, ritenuto infermo di mente (e in quanto tale non imputabile), ma socialmente pericoloso, può essere internato in una R.E.M.S..
Viceversa sarà prosciolto e non soggetto all’applicazione di alcuna misura di sicurezza.
In materia di applicazione di  queste misure di sicurezza, poi, ho fatto cenno alle novità introdotte appunto dalla Legge n. 81/2014 che  fa ricorso alle misure di sicurezza detentive, per un non imputabile, solo quando ogni misura diversa non è idonea a fare fronte alla sua pericolosità sociale.
E vero che vi è stata l’introduzione di un elemento positivo :  un termine massimo di durata per le misure di sicurezza per scongiurare i cd. “ergastoli bianchi” e  si è stabilito che le misure di sicurezza detentive, provvisorie o definitive, non possono durare oltre il tempo stabilito per la pena detentiva massima prevista per il reato commesso, ma purtroppo la legge presenta dei vuoti.
Ciò  in quanto il Giudice non dispone di un ventaglio di soluzioni adatte da applicare al caso concreto per una risposta trattamentale adeguata.
Cosa, questa, a mio avviso, censurabile in quanto sarebbe di certo auspicabile che il Giudice potesse indirizzare il non imputabile ad un programma terapeutico  adatto a lui sin dal momento della pronuncia del processo penale, ricorrendo alla misura di sicurezza detentiva solo quando sia l’unica soluzione utile e praticabile. Ed infine ho concluso affermando  che, a quarant’anni dalla entrata in vigore della Legge Basaglia, per quanto riguarda la relazione tra paziente psichiatrico e processo penale,  poco o nulla si è fatto per cui occorre un intervento legislativo di riforma urgente e concreto perché gli O.P.G. che sulla carta non esistono più, non vengano di fatto sostituiti dalle R.E.M.S in quanto la normativa al riguardo è lacunosa e insufficiente.
Avv. Raffaele G. Crisileo 

lunedì 5 febbraio 2018

Reati sessuali su minori: va sempre disposta la perizia sul bambino.

Nei procedimenti per reati sessuali su minori, specie se si tratta di bambini in tenera età, la valutazione della capacità a testimoniare e della credibilità della vittima riveste - a mio parere - un ruolo decisivo.
In questi casi il giudice può decidere senza aver prima disposto una perizia psicologica sul bambino? Questa e’ la domanda che ci dobbiamo porre perche’ e’ una tematica molto dibattuta, specialmente in questi ultimi tempi e quindi attuale. 
Al quesito - secondo me - ha risposto di recente la Corte di Cassazione, Terza Sezione Penale, con la sentenza 2016 /43245.
I Giudici  della Suprema Corte hanno affermato la necessità dell’utilizzo, in sede di processo penale, della perizia psicologica sul minore "presunta vittima" del reato per  accertare la veridicità dei fatti da lui narrati e, poi, hanno affermato la possibilità di ricorrere in Cassazione quando manchi questo  elemento. 
Ciò premesso debbo sottolineare che "il reato di atti sessuali con minorenne si caratterizza per un’attività di pressioni o di persuasione finalizzata a determinare la persona nel senso voluto dall’agente".
Per questo motivo, occorre, secondo me, nel caso di dichiarazioni del minore - vittima di reati sessuali - “ verificare la sua precipua attitudine  psicofisica ad esporre le vicende in modo esatto, nonché la sua posizione psicologica rispetto alle situazioni interne ed esterne".
E cio’ dove ci conduce ? Questo ci dobbiamo chiedere. Ebbene secondo me cio’ ci porta a ritenere che "soltanto quando il Giudice disponga di concreti elementi per stabilire che il dichiarante sia assolutamente incapace di rendere dichiarazioni, opera il divieto di assumere le dichiarazioni",
In secondo luogo, debbo poi riportare alcune considerazioni del Giudice Carlo Crapanzano che,  in un suo scritto giuridico, che ho
avuto modo di leggere in questi giorni, scrive : “ secondo quanto prevede il primo comma dell’art. 196 c.p.p., ogni persona ha la capacità di testimoniare e tale principio vale come riferimento di carattere generale anche per i minorenni".
A fronte di tale affermazione tsluni hanno mosso critiche sostenendo che sarebbe invece "preclusa tale testimonianza dall’ art.120 c.p.p. dove  si prevede che "Non possono intervenire come testimoni ad atti del procedimento: a ) i minori degli anni quattordici …. " . 
Ma, attenzione, osserviamo noi, la giurisprudenza di Cassazione ha -da tempo- interpretato e chiarito la norma secondo la quale "l’art. 120 c.p.p. non pone alcun divieto alla testimonianza dei minori, in quanto stabilisce solo che i minori degli anni quattordici e gli altri soggetti appartenenti alle categorie ivi indicate non possono intervenire come testimoni ad atti del procedimento".
Il Giudice Crapanzano conclude affermando che “si fissa in tal modo “ solo una inidoneità generale della persone catalogate ad assolvere alla funzione di garanzia che la legge prevede per il compimento di determinate attività (ispezioni, perquisizioni ecc... )”. 
In altri termini, secondo l'Autore: "... La minore età di un testimone non incide sulla capacità di testimoniare, che è disciplinata dal principio generale contenuto nell’art. 196, co.  1, del c.p.p., ma solo sulla valutazione della testimonianza e, cioè, sull’attendibilità... “. In prospettiva, infatti “ opera il regime ex art. 498, co. 4, del c.p.p. per l’esame del minore affidato al presidente del collegio giudicante e con l’ausilio di un un esperto psicologo".
Ciò implica, a parere dell’Autore , che per poter eseguire un esame testimoniale ben organizzato, sul minore -vittima di reato sessuale, vanno messe in atto, le linee-guida della “Carta di Noto" (1996/2002), che è entrata a far parte dei "criteri e valutazioni dei quali tengono conto i Giudici" per verificare "l’attendibilità dei testimoni".
Noi condividiamo in pieno questa tesi perche’ nella Carta di Noto si prevede che: "...i professionisti formati a raccogliere le testimonianze dei minorenni debbano usare metodologie e criteri scientifici affidabili dovendo, però, al contempo, tenere presente che "la valutazione psicologica non può avere ad oggetto l’accertamento dei fatti per cui si procede...".
In conclusione - secondo noi “ la valutazione (del minorenne) a rendere testimonianza può essere affidata ad un perito, mentre "la veridicità o meno del racconto del minorenne deve essere affidata al Giudice".
In buona sostanza - riteniamo correttamente che - in questi reati sia necessario predisporre particolare cautele processuali per tutelare la genuinità  del processo e l’equilibrio psicofisico del minore. 
Muovendo da tali premesse, in buona sostanza, il Giudice Crapanzano analizza il requisito della capacità di testimoniare dei bambini. 
L’illustrazione dello studioso di diritto tiene conto, da ultimo, delle dinamiche processuali in ambito di perizia psicologica da effettuarsi nei confronti del minore vittima di abusi sessuali e prosegue la sua analisi evidenziando che "... anche i bambini in tenera età sono in grado di ricordare ciò che hanno visto e subito pur spettando al giudice di valutare la credibilità del dichiarante e l’attendibilità delle dichiarazioni...".
Per quanto concerne, invece, la capacità del minore di rendere testimonianza, il dott. Crapanzano evidenzia, con riferimento al ruolo del Giudice che: "... l’inesistenza nel sistema normativo di preclusioni o limiti alla capacità del minore a rendere testimonianza (art. 196 c.p.p.) non affranca il giudice dal dovere di controllarne le dichiarazioni con impegno assai più solerte e rigoroso rispetto al generico vaglio di credibilità cui vanno sottoposte le dichiarazioni di ogni testimone... “, in quanto "in particolare nei reati a sfondo sessuale – dei quali il minore è frequentemente vittima e il suo contributo non è normalmente sottraibile alla ricostruzione del fatto – il Giudice  deve accertare la sincerità della testimonianza del minore, con prudenza e con un esame rigoroso di tutti gli altri elementi probatori di cui si possa eventualmente disporre".
A tal proposito, afferma  che "... può rivelarsi necessario il ricorso agli strumenti dell’indagine psicologica per verificare la concreta attitudine del minore a testimoniare, la sua credibilità, la sua capacità a recepire le informazioni, a raccordarle tra loro, a ricordarle e a esprimerle in una visione complessa, da stimare in relazione all’età, alle condizioni emozionali che regolano le sue relazioni con il mondo esterno, alla qualità e alla natura dei suoi rapporti familiari... “, anche al fine di "escludere che una qualunque interferenza esterna, talvolta collegata allo stesso ambiente domestico nel quale l’abuso sessuale non di rado si consuma , possa alterare la genuinita’ dell’apporto testimoniale".
In conclusione - secondo noi - in caso di mancato accertamento della sussistenza della capacità di testimoniare del minore, oppure dove manchino, ai fini di tale riscontro, elementi probatori, la testimonianza del minore e’ inficiata e passibile di ricorso in Cassazione.
Scrivo questo articolo perche’ sposo in pieno la recentissima e innovativa  giurisprudenza della Suprema Corte e le osservazione dell’illustre magistrato
dott. Crapanzano in quanto ritengo utilissimo come strumento di ausilio del Giudice  in un processo penale la perizia psicologica e i test EMDR essendo un cultore della psicologia giuridica nell’auspicio che la scienza psicologica venga sempre piu’ applicata ed utilizzata nel processo penale essendo essa una branca della criminologia e ritenendo che diritto penale, processo penale e psicologia giuridica debbano camminare insieme non solo per l’accertamento della verita’ processuale, ma soprattutto per verificare se colui che ha compiuto um fatto - reato e’ stato mosso da una  pulsazione  criminale propria oppure perche’ era in stato di sudditanza psicologica.

Avv. Raffaele Gaetano Crisileo
Penalista Cassazionista