martedì 13 ottobre 2020

Un nuovo reato per chi introduce un cellulare in carcere e per chi lo possiede

 

Un nuovo reato - l’ha creato qualche giorno fa il nostro Governo su proposta del Ministro della Giustizia - per punire chi introduce un cellulare in carcere e anche per chi lo detiene.

Severa, la nuova pena : da uno a quattro anni di carcere.

Prima non esisteva il reato, né la pena.

Era previsto soltanto un illecito disciplinare sanzionato all’interno dell’istituto.

 

Per la cronaca - come scrive la nota giornalista Liana Milella su la Repubblica - “… nei primi nove mesi di quest’anno, nelle nostre galere, sono stati scoperti 1.761 cellulari, confusi nel cibo, sistemati negli indumenti intimi, ingoiati, nascosti nel corpo, inseriti dentro un pallone per poi essere lanciati, trasportati da un drone, collocati nel fondo delle pentole. Nel 2019 ne avevano trovati 1.204  e 394 l’anno prima. Segno evidente di un’esplosione che giustifica sicuramente un nuovo reato accompagnato da un’altra misura molto dura per chi è al 41 bis. Chi agevola quel detenuto, nelle comunicazioni con l’esterno, vedrà la sua pena fissata da 2 a 6 anni, mentre oggi era da 1 a 4 anni. Se, poi, il reato è commesso da un pubblico ufficiale, o da un incaricato di pubblico servizio o da chi fa l’avvocato, la pena sarà da 3 a 7 anni, rispetto ai 2 - 5 anni di oggi. 

Ma torniamo agli episodi - continua la giornalista Liana Milella - che documentano come vengono introdotti i cellulari in carcere inventando le più incredibili strade. La giornalista Fiorenza Elisabetta Aini poi documenta più di una dozzina di episodi realmente accaduti : il 3 settembre un pallone con all’interno 16 telefonini è stato trovato all’esterno del muro perimetrale del carcere di Avellino. Il 25 settembre, a Roma-Rebibbia, gli agenti scoprono due micro-telefoni e un carica batteria nascosti dentro tre pezzi di formaggio. A giugno quattro minicellulari nascosti dentro due salami. Scrive la giornalista su Gnewsonline: “…… A Secondigliano, durante il lockdown, un drone si è schiantato contro uno dei muri del carcere mentre cercava di recapitare due piccoli involucri contenenti smart-phone, microcellulari, con batterie, sim card e kit completo di alimentazione”. Ma non basta perché “….. sempre nel penitenziario campano, un drone è stato intercettato dagli agenti e dentro sono stati trovati dieci telefonini cellulari, otto carica batteria e dieci schede telefoniche”. 

Nel carcere di Carinola dei detenuti ad agosto lanciavano pietre di calcestruzzo dentro al penitenziario, nelle quali erano chiusi in sacchetti di plastica 20 smart-phone. Sempre a Carinola, “un sacerdote - che doveva celebrare la Messa domenicale nel penitenziario - è stato trovato con 9 cellulari nascosti nelle buste di sigarette e tabacco che aveva intenzione di portare ai detenuti, con tanto di carica batteria e cavetti Usb”. E poi con una pentola, nel cui fondo ad Avellino erano nascosti 19 microcellulari, 4 smart-phone e 2 telefoni satellitari. Non mancano neppure quelli che Gnewsonline chiama “sistemi tradizionali”, cellulari ingoiati, come l’8 maggio nel carcere di Pagliarelli a Palermo. O quattro telefoni nascosti nello stomaco come nel 2019. O giusto qualche giorno fa, in Sicilia, il detenuto che durante il trasferimento da un carcere a un altro nasconde nel retto “un microtelefono, tre micro sim e un carica batterie”. 

Una rassegna incredibile che porta la giornalista Liana Milella de La Repubblica a chiedersi : come è possibile che finora tutto questo sia stato punito solo con un illecito disciplinare all’interno del carcere ?

domenica 26 aprile 2020

ULTIMO LIBRO

E’  nelle librerie il nuovo libro dell’avv. Raffaele Gaetano Crisileo “ Enrico e Milena. Due angeli in Paradiso. Casa Editrice Saletta dell’Uva con prefazione del Patriarca di Gerusalemme Mons. Pierbattista Pizzaballa. La prima presentazione e’ avvenuta il 24 febbraio  2020 a Santa Maria Capua Vetere all’Universita’ Luigi Vanvitelli Dipartimento di Giurisprudenza durante una “lectio magistralis “dell’alto prelato arcivescovo e la postfazione del prof. Raffaele Santoro. I ricavati della vendita per volonta’ dell’autore saranno devolute alle opere cartitatevoli dei Cristiani in Terra Santa promosse dal Patriarcato dei Latini in Gerusalemme. 

SINTESI BREVE  DEL LIBRO 

Due omicidi compiuti con modalita’ crudeli a confronto : quello di Milena Sutter a Genova nel maggio 1971  e quello di Enrico di Monaco perpetrato  a Santa Maria Capua Vetere nell’aprile 2005, distanti l’uno dall’altro oltre trentanni, ma ambedue indiziari e compiuti con sistemi simili e assai orripilanti. Il volume compie un’ analisi  dei due delitti ed in particolare dei due soggetti dichiarati assassini con sentenza definitiva, ma che si sono sempre dichiarati innocenti. Da ultimo l’autore, in chiame psicologica, si sofferma sul movente dei due casi in esame. 

Prefazione 
di Mons. Pierbattista Pizzaballa 

In uno stile discorsivo, a volte quasi parlato (e forse non potrebbe essere diversamente, vista l’indubbia abilità oratoria che traspare dalla trascrizione di una delle sue arringhe qui riportate), l’avvocato Crisileo, introduce anche i non addetti ai lavori nel mondo del diritto.
Partendo da due processi assai distanti nel tempo e nello spazio, che l’autore mette a confronto dopo averne studiato con accurata perizia i vari elementi ed essere stato, in uno di essi, parte in causa in qualità di “patrono di parte civile”, il Crisileo affronta il tema del “processo indiziario” nel nostro Paese, con l’intento di mostrarne, qualora tutti gli elementi vengano rispettati con rigore logico e lucidità, l’indiscusso valore giuridico.
L’originalità della proposta contenuta in questo libro consiste indubbiamente nella varietà dei temi trattati, alcuni dei quali esulano anche in modo vistoso, per quanto non peregrino, (come si può vedere, per esempio, nelle pagine che riguardano la preghiera) dall’argomento propriamente giuridico. Tale varietà, infatti, contribuisce a offrire al lettore uno spaccato a tutto campo degli argomenti trattati e riesce a non appesantire l’esposizione, grazie all’alternarsi di osservazioni personali e di avvincenti documenti processuali, di spaccati di vita vissuta e di narrazioni di epoche lontane nel tempo.
Ma non è semplicemente la variegata presenza di elementi diversi a costituire il maggior pregio di quest’opera, quanto piuttosto ciò che l’autore, con discrezione e rispetto, ci fa intuire dietro ogni personaggio descritto, dietro ogni vicenda narrata, per quanto drammatica e talora raccapricciante possa essere: intendo dire lo spessore umano che ogni evento racchiude, il mistero e l’esigenza di verità nascosti in esso e che da esso trapelano, invocando la presenza di valori e di significati non effimeri.
Gerusalemme, 10 settembre 2019
 †Pierbattista Pizzaballa,
Arcivescovo

POSTFAZIONE

Raffaele Santoro
Professore Associato
Dip. Giurisprudenza
Università della Campania “Luigi Vanvitelli”



L’Avv. Raffaele Gaetano Crisileo all’interno di questo Volume ripercorre, con una dettagliata ricostruzione, i processi inerenti i delitti di Enrico di Monaco e Milena Sutter.
Nella prima parte, dopo aver esposto con dovizia di particolari la strategia dell’avvocato penalista all’interno di un processo indiziario e il tormento dell’anima vissuto dallo stesso, l’Autore analizza l’omicidio di Enrico di Monaco, riportando integralmente la propria arringa dinanzi alla Corte di Assise di Appello di Napoli.
Dalla relativa lettura emerge in tutta la sua evidenza l’azione difensiva dell’Avvocato nel processo e non dal processo, contribuendo attivamente ed efficacemente alla ricerca della verità processuale. Dall’arringa tenuta dall’avv. Crisileo in questo delicato processo emerge altresì l’importanza dell’oratoria forense, quale arte di parlare ed esporre oralmente nel processo in modo chiaro, coeso, deciso e coordinato una determinata linea difensiva, rappresentando all’organo giudicante i contenuti con ordine, efficacia, compostezza, eleganza, sicurezza e stile, il tutto accompagnato anche da una corretta gestualità.
La seconda parte del Volume, dedicata all’omicidio di Milena Sutter, si conclude con una profonda riflessione sulla giustizia riparativa e sulla necessità di delineare un sistema sanzionatorio contraddistinto da una pena più umanizzante. A tale riguardo, l’Autore, con sguardo lungimirante, evidenzia che «amministrare la giustizia non vuol dire solo “mettere le mani” sul colpevole e pronunciare nei suoi confronti una sentenza di condotta, ma significa innanzitutto mettere al primo posto, il rispetto, “la dignità”, i “diritti della persona umana”, sia vittima che reo; questo senza discriminazione alcuna».
La piena tutela dei diritti fondamentali nel processo e dopo il processo in caso di condanna impone dunque necessariamente di superare anche in questo delicato ambito ad alto impatto sociale quella che Papa Francesco definisce come la «cultura dello scarto», nella consapevolezza che anche «le carceri hanno bisogno di essere sempre più umanizzate».
In questa prospettiva, come ben evidenziato dall’Autore, appare sempre più urgente promuovere una evoluzione in chiave costituzionale dell’intero sistema penitenziario, al fine di approdare anche ad una «giustizia “ripartiva” che insegna al colpevole ad essere responsabile ed a dialogare con chi ha subito il torto e con la comunità», al fine di approdare ad una piena ed effettiva attuazione del modello sanzionatorio tracciato dai Padri Costituenti nella Carta Costituzionale.

Raffaele Santoro
Professore Associato
Dipartimento di Giurisprudenza
Università della Campania “Luigi Vanvitelli”

domenica 22 marzo 2020

Le violazioni e le conseguenze penali in tema di Coronavirus.

Conviene rispettare le regole, in tempi di “Coronavirus”, per evitare di essere denunziati e di subire un processo penale le cui pene non sono uno scherzo. Chi viola la quarantena o viola le prescrizioni delle Autorita’ rischia fino a 3 mesi di carcere o 206 euro di multa. Lo prevede la direttiva inviata dal Ministero degli Interni nella quale e’ prevista la violazione dell’art. 650 del codice penale (inosservanza di un provvedimento di un’autorità, pena prevista arresto fino a tre mesi o l’ammenda fino 206 euro) salvo che non venga configurato un reato più grave come quella previsto dall’art. 452 del codice penale (delitti colposi contro la salute pubblica che punisce le condotte che possono causare un pericolo per la salute pubblica)”.
La nostra attenzione, oltre che sull’art.65O del codice penale, si deve soffermare sui reati di epidemia dolosa (art. 438 c.p.) e di epidemia colposa (art. 452 c.p.). La prima cioe’ l’epidemia colposa e’ prevista dall’art. 452 c.p.. Ma chi commette un reato del genere? Come e’ noto vi incorre, ad es., colui che, consapevole di aver contratto il virus, continui a circolare liberamente diffondendo la malattia senza rispettare le disposizioni precauzionali imposte dal DPCM.Poi vi e’ un’altra figura di reato, quella di Epidemia dolosa prevista dall’ art. 438 c.p. che ha la finalita’ di tutelare la pubblica incolumita’. In sostanza il legislatore mira a evitare che una malattia infettiva, che abbia già colpito un certo numero di persone, possa colpire altri cittadini, in modo da mettere seriamente in pericolo la sicurezza della salute della comunita’. Sappiamo che il termine “salute” ha un significato variegato, come l’equilibrio psico-fisico-ambientale, come l’armonico equilibrio delle funzioni fisiche e mentali delle persone e cosi via. Si tratta, dunque, di un reato di danno per la salute pubblica e il pericolo costituisce un suo effetto eventuale in relazione all’ulteriore capacità diffusiva dell’epidemia.
In definitiva, affinché il delitto punito dall’art. 438 c.p. possa configurarsi e’ necessario che la condotta, consistente nella diffusione dì germi patogeni, causi la manifestazione collettiva di una malattia infettiva umana che si diffonde rapidamente colpendo un rilevante numero di persone. L’evento che ne deriva è, dunque, un evento di danno e di pericolo insieme ed e’ un reato di evento a forma vincolata, in quanto il soggetto deve cagionare l’evento dell’epidemia. Ai fini della diffusione dei germi patogeni non e’ necessario che il soggetto e i germi siano delle entità separate, ben potendo aversi epidemia quanto l’agente sia esso stesso il vettore dei germi patogeni. Ciò significa che commette questo tipo di reato anche colui il quale, consapevole di aver contratto un virus, continui a circolare liberamente, diffondendo la malattia.
Ma che cosa s’intende con il termine epidemia? Si intende una malattia infettiva capace di colpire contemporaneamente un gran numero di persone e di diffondersi ulteriormente per contagio, per poi attenuarsi dopo aver compiuto il suo corso. Ma quali sono gli elementi caratterizzanti l’epidemia? Al riguardo la giurisprudenza ha indicato come elementi dell’epidemia: il carattere contagioso della malattia; la rapidità della sua diffusione e la sua durata; il numero massiccio di persone colpite, tale da destare un notevole allarme sociale e un pericolo per la collettivita’; l’estensione territoriale ampia. L’epidemia riguarda esclusivamente le malattie umane. Il dolo consiste nella coscienza e volontà di diffondere germi patogeni, unite alla rappresentazione e alla volonta’ del contagio di un certo numero di persone. Un’altra figura da considerare e’ la Epidemia colposa prevista dagli artt. 438 e 452 c.p.. Anche per questa fattispecie gli elementi essenziali del reato sono la diffusibilità, l’incontrollabilità del diffondersi del male in un dato territorio e su un numero indeterminato di persone. Il reato deve, perciò, escludersi se l’insorgere e lo sviluppo della malattia si esauriscano in un ambito ristretto, come in un ospedale. Per l’epidemia colposa si deve stabilire se vi sia stata una diffusione imprudente e/o negligente di germi patogeni capaci di provocare quell’epidemia realmente verificatasi La regola di prudenza che si va a infrangere può essere sociale o giuridica: per quest’ultima si può ipotizzare, ad esempio, l’inosservanza delle disposizioni per la prevenzione del “Coronavirus”.
In conclusione conviene rispettare le regole, in tempi di “Coronavirus”, per evitare di essere denunziati e di subire un processo penale le cui pene non sono uno scherzo.
avv. Raffaele Gaetano Crisileo

venerdì 3 gennaio 2020

Mai la giustizia deve essere retributiva!


Mi piace iniziare  da una delle storie più cruente della mitologia  greca partendo da una trilogia di Eschilo. E' la storia, quella della contrasto  tra due fratelli che si odiano, che  si contendono il trono di Micene, ma loro è anche una lotta resa piu’ aspra dal fatto che uno dei due ha  una relazione con la moglie dell’altro e quindi quest’ultimo escogita una vendetta  ai danni del primo fratello.
E allora Atreo invita Tieste ( questi i nomi dei due germani ) a cena e gli cucina le carni dei suoi primi tre figli che egli aveva ucciso.
Questo l'antefatto di una vicenda macabra cui seguono le lotte tra i figli di Atreo e quello di Tieste. In particolare Egisto è l'unico figlio di Tieste sopravvissuto alla strage che vuole vendicarsi sul figlio di Atreo cioe’ su Agamennone.
Ma Agamennone non è soltanto la vittima predestinata di Egisto,  ma  è anche il destinatario della vendetta della moglie, Clitennestra, che vuole vendicare la morte della figlia Ifigenia che Agamennone aveva ucciso personalmente per placare gli dei e  consentire alla flotta di partire per Troia.
Allora c’e’ già un primo motivo di odio tra Atreo e Tieste che sfocia in un fatto di sangue, c'è poi l'odio dei figli  verso Agamennone che, nell'episodio di  Clitennestra, uccide Agamennone.
Ma la vicenda continua :il figlio di Agamennone Oreste vendica l'uccisione del padre e uccide Egisto e la madre Clitennestra. 
Perche’ siamo partiti da questa trilogia ? Perche’ non vi e’ dubbio che essa e’ evocativa. 
Viene commesso un delitto che deve essere vendicato anche se vi sono  relazioni di consaguineità, come nel caso di Oreste che uccide la madre.
Dopo l'uccisione di Clitennestra e di Egisto da parte di Oreste, ci sarebbe la necessità di vendicarsi su Oreste e la catena dei delitti dovrebbe risultare alla fine interminabile.
Ma Eschilo da’ una svolta a questa vicenda così dolorosa, nel senso che su indicazione di Apollo e di Atena.  Oreste,  dopo aver commesso il matricidio,  ripara ad Atene dove avviene la svolta.
Oreste  ottiene di essere giudicato da un tribunale costituito da dodici  ateniesi che ascoltano le ragioni dell'accusa e della difesa e alla fine viene emessa una sentenza che sarebbe in parità ma siccome la presidente della giuria è Atena che è favorevole alla assoluzione, Oreste viene assolto.
Questa terza tragedia della trilogia è la prima importante descrizione analitica di un processo in piena regola con l'imputato, la difesa e l'accusa. Vi  è una giuria che giudica in maniera imparziale interrompendo la catena  delle vendette.
E lo stesso Eschilo individua in questa vicenda un passaggio storico: il passaggio da un mondo primitivo, dominato dalla violenza al mondo civilizzato della polis, della città stato di Atene.
E' il passaggio dalla legge del taglione al tribunale : e’il passaggio dalla vendetta  alla giustizia,  dalla barbarie alla civilta’. Questo impatto emotivo serve per  una riflessione.
In buona sostanza il diritto penale moderno, quello delle nostre società civilizzate,  dovrebbe essere il risultato del superamento definitivo della logica della vendetta alla quale si sostituisce la logica  della valutazione della colpa alla quale si fa corrispondere la pena rispetto alla barbarie del sangue.
Questo passaggio sanzionerebbe il sopravvento di un diritto penale razionale immune dalla logica della vendetta.
Ma io vorrei proporvi due interrogativi tra di loro connessi.
Il primo interrogativo è questo: siamo sicuri che  attraverso l’ immaginario delle tragedie di Eschilo ciò che viene descritto sia un passaggio lineare e irreversibile da una società di vendetta a una di giustizia?
E il secondo interrogativo e’ questo: il diritto penale moderno, come è noto, si fonda sul concetto di pena.Allora  possiamo dire che la nozione di pena sia tale da non portare alcuna traccia del precedente concetto di vendetta; possiamo  considerare la pena il corrispettivo razionale della colpa immune da ogni intento puramente vendicativo?
Allora per rispondere a questi interrogativi ricorriamo  a due filosofi  lontani nel tempo e diversi tra loro. 
Il primo è Nietzsche e mi riferisco al suo testo  che si intitola Genealogia della morale.
Nietzsche si interroga esattamente sul problema che ci siamo posti ora: cioè si domanda qual e’  l'origine della nozione di pena, da dove trae origine, attraverso quale percorso storico concettuale si è affermata la nozione di pena.
Secondo Nietzsche l'origine va collocata nel rapporto contrattuale tra creditore e debitore, il più antico rapporto economico che si conosca. Ma affinchè il debitore si senta affettivamente vincolato alla restituzione e affinchè il creditore gli creda è indispensabile, sottolinea Nietzsche, che il creditore ottenga dal debitore qualcosa in pegno.
E che cosa può dare il debitore in pegno? Che cosa può dare in pegno come garanzia della restituzione? Può dare in pegno il proprio corpo o la propria donna o la propria libertà o la propria vita.
Di qui come logica conseguenza il fatto che il creditore ha il diritto di esercitare ogni forma di ignominia e di tortura sul corpo del debitore insolvente.
E Nietzsche ricorda come una testimonianza di questa consuetudine, che non è più così remota nel tempo, l'abbiamo addirittura nella legge delle dodici tavole, la più antica legislazione scritta romana. 
A questo punto però si colloca un passaggio fondamentale, su che cosa si regge questa relazione e in che senso la relazione creditore debitore è quella che ci fa capire l'origine del concetto di pena e della funzione che alla pena viene affidata.
Se voi ci pensate, tutto si regge sul fatto che al posto di un vantaggio che sia in equilibrio col danno subito, il creditore ottiene quale rimborso una soddisfazione intima quella di far soffrire il debitore; cioè non riesce a ottenere indietro la somma che gli ha anticipato può invece esercitare addirittura per legge il diritto a far soffrire il debitore e questa cosa che egli ottiene è una compensazione che tutto sommato gli dà qualcosa di equivalente al danno che ha subito perché non gli viene restituito il denaro. Una soddisfazione intima.
Altrove Nietzsche afferma: perché in questo modo il creditore acquisisce una specie di contro godimento, il godimento di veder soffrire il debitore insolvente.
C'è un ulteriore passaggio storico sul quale si sofferma Nietzsche e cioè che c'è una fase in cui la potestà punitiva , la  capacità di punire passa ad una autorità, per cui non può essere più il creditore a esercitare il taglio , lo sminuzzamento degli arti del debitore perché c'è una potestà punitiva.
E allora che cosa succede ?
Secondo Nietzsche la crudeltà evoca un'aria di festa, di godimento e da un punto di vista può sembrare scandaloso ma non lo è; e cioè che non sono passati molti anni da quando non vi era occasione festiva, anche nuziale nella quale per dilettare coloro che partecipavano alla cerimonia si bandissero esecuzioni capitali oppure forme di tortura nei confronti di prigionieri.
La crudeltà secondo Nietzsche ha appunto una grande aria di festa, e il vedere che qualcuno viene punito offre quella sorta di soddisfazione intima che per il creditore è tanto importante quanto il denaro che ha perduto.
Dunque per Nietzsche questa sarebbe l'origine della nozione di pena.
Il debitore insolvente si colloca al di fuori di una relazione equilibrata, rompe l'equilibrio e allora per ripristinare l'equilibrio cosa si fa, gli si infligge una pena che gli provochi una sofferenza che possa dare al creditore una soddisfazione.
Questa è l'origine della nozione di pena.
Nietzsche fa chiaramente capire con queste riflessioni di carattere storico concettuale che siamo ancora largamente dentro la logica della vendetta e della legge del taglione .
Abbiamo la possibilità di  avere un altro scenario una seconda chiave di lettura dell'origine della pena.
In questo caso ci aiuta a capire l'origine della pena un filosofo  del novecento, Paul Richer, che ci aiuta a dare una rilettura del concetto di pena molto diversa ma non contraddittoria rispetto a quella nietzschiana.
Richer parte da una precisazione di carattere etimologico e cioè il termine pena viene dal greco poiné, la cui radice la ritroviamo anche nel verbo latino punire.
E bene a differenza di ciò che pensiamo, punire in latino originariamente vuol dire purgare, purificare, potremmo aggiungere lavare in maniera da togliere la macchia.
Pena allora starebbe a indicare una azione che serve per lavare una situazione precedente, e Richer ci aiuta a capire questo passaggio quando dice che da questo punto di vista la pena assomiglia molto ad un altro termine il cui significato è più immediato e più trasparente cioè il termine castigo.
Perché il significato di castigo è più immediato perché viene dal latino castus che vuol dire puro,  pulito non contaminato. 
Ecco vi raccomando di cogliere questo passaggio in cui si ipotizza che ci sia una condizione originale integra, che è stata macchiata da una colpa.
La colpa è una macchia, una ferita di un ordine che in precedenza era integro e allora io devo intervenire con una pena, con un castigo allo scopo di lavare la macchia per reintegrare quell'ordine che la colpa ha modificato, ha deformato.
Allora la pena in tutta evidenza si fonda su due presupposti.
Il primo è una visione complessiva della realtà, in cui in origine c'è un universo bene ordinato, ben costituito,integro e che viene vulnerato cambiato, deformato quando si commette una colpa.
Il secondo presupposto è ancora più significativo nel senso che bisogna immaginare, io devo poter presupporre che la pena corrisponda ad una condotta di annullamento che cancella la colpa.
Ecco perché allora io devo irrogare una pena, perché se non lo faccio lascio la macchia, è come davvero se su una tunica candida si lasciasse una macchia. La macchia è la colpa, la pena interviene lavando la colpa e ripristinando il candore della tunica originaria.
Ciò che Richer,  ma al di là di Richer,  e avete capito che io condivido completamente questa impostazione, vuole sottolineare, è che  la pena corrisponde dal punto vista logico ad una convinzione che bisognerebbe dimostrare, e cioè alla convinzione che infliggere una sofferenza a qualcuno che si sia reso colpevole di qualche reato cancelli il reato che è stato commesso.
Insomma secondo Richer questo modo di concepire la relazione colpa - pena si giustifica soltanto in una prospettiva di carattere mitologico.
Cioè nella prospettiva di immaginare che viviamo in un mondo che all'origine era integro, che subisce questa alterazione della colpa e rimedia alla alterazione della colpa mediante la pena.
Secondo Richer  l'origine di questa maniera di concepire il rapporto colpa- pena è in un certo modo un contesto di carattere mitologico religioso, in cui cioè il peccato deve essere sanzionato con il castigo per riportare le cose in ordine, per riportare le cose al punto di partenza .
E allora Richer  osserva che mentre nel diritto penale moderno resiste  questa concezione mitologica per la quale la pena cancellerebbe la colpa, da questo modo di vedere ha preso commiato la religione.
In maniera particolare secondo Richer  attraverso quel testo straordinario che è la lettera di San Paolo ai Romani.
Abitualmente si considera che il salario del peccato è la pena , ma dice Richer , leggendo San Paolo, la novità dirompente del cristianesimo è che Gesù fa corrispondere al peccato non il castigo ma l'infinità della sua misericordia.
Si rompe la presunta simmetria del rapporto tra peccato e castigo, e al peccatore che commette  il peccato invece, invece che riservargli il castigo, gli si riserva l'infinità della misericordia divina.
Alla base del diritto penale moderno c'è una concezione mitologica della pena, c'è la convinzione che la pena cancelli la colpa, quando invece bisognerebbe semplicemente prendere atto che la pena incrementa il tasso complessivo di sofferenza, senza che questa sofferenza possa in nessun modo restituire alla vittima del reato ciò che è stato leso.
Se così stanno le cose, la pena è solo il residuo di una visione antica e conserva tutti i caratteri della vendetta.
Non abbiamo affatto abbandonato questa spirale infernale del sangue che chiama sangue, se è vero che la società organizzata di fronte ad un delitto, a un reato chiama, esige, impone, invoca la pena.
Anche se questa pena non restituisce, certamente, nulla alla vittima del reato.
Per concludere io cito le parole della maggiore filosofa del novecento, Simone Weil, che scrive che "il diritto, in maniera particolare il diritto penale,  non è un'altra dimensione della giustizia, non è la sua immagine sbiadita, ma è il suo avversario irriducibile”.
E aggiunge il filosofo antropologo, Renè Girard, è che ciò che emerge alla radice del diritto di pena è la persistenza implacabile del meccanismo della vendetta, un tentativo ricorrente, ma fallito, di razionalizzare la vendetta.
La pena, scriveva Girard, è violenza senza rischio di vendetta.
E in qualche modo io credo che possiamo trovare una conferma di questo concetto di pena, della sua indifendibilità, del fatto cioè che essa ambisca a una razionalità che non riesce in alcun modo a dimostrare.
Siccome dal punto di vista teorico non è possibile trovare altra giustificazione del concetto di pena che non sia l'esigenza che la società avverte di una vendetta nei confronti del reo,l'unica cosa possibile, forse, è affidarsi, dove è possibile, al buon senso,  di queste nozioni che sono alla base del diritto penale, al riconoscimento  dell'insuperabilità di questa aporia , senza dimenticare - come già Pindaro e poi Platone scrivevano - che la tyche, ovvero la giustizia abita presso dio.
Ma  se e’ vero che tutto ciò che gli uomini possono fare è solo un diritto imperfetto, lacunoso e difettivo, che porta con sé un carico insuperabile di contraddizioni,  e’ pur vero che solo quando la pena non diventi retributiva.

domenica 16 dicembre 2018

LA RIFORMA DELLA PRESCRIZIONE E’ ANTICOSTITUZIONALE : CONCORDI MAGISTRATI ED AVVOCATI

Sulla riforma della prescrizione magistratura e avvocatura sono del tutto concordi tra loro nel ritenere che il nuovo ddl  è affetto da diversi profili  di anticostituzionalità. Questa è la novità di questi ultimi giorni. E su questo vogliamo soffermarci un attimo. Ma noi lo avevamo preannunziato  - questo paventato problema di una possibile anticostituzionalità  - sin dalle prime battute in cui avevamo letto il testo di legge. Ora apprendiamo, con soddisfazione, che il Consiglio Superiore della Magistratura, in particolare la sesta commissione, a ben ricordare, ha ravvisato, in questa nuova legge, appunto diversi profili di incostituzionalità, come ad esempio nel cosiddetto “Daspo” per chi incorre in alcuni specifici reati. E per prima cosa, ci dobbiamo soffermare sulla delibera - che sarà data per la votazione a breve - la quale stabilisce che la prescrizione verrà ad essere abolita dopo il primo grado di giudizio. Ciò  perché, a nostro parere, tutto ciò  rischia di trascinare molti processi in una storia incredibilmente e paradossalmente infinita. E perché  affermiamo ciò ? Tanto ci dobbiamo chiedere. Perché  la legge di cui parliamo - a nostro avviso - non sembra rispettare i principi basilari della nostra Carta Costituzionale. Già  l’organismo nazionale dell’avvocatura italiana ( CNF ), infatti, lo aveva di gran lunga evidenziato, peraltro a grosse lettere (ricorrendo anche alla proclamazione di periodi di astensione dalle udienze), un poco di tempo fa, in un proprio scritto che venne trasmesso alla Camera dei Deputati. Ora la novità  - che apprendiamo davvero con piacere – è che anche la magistratura ( oltre all’avvocatura, come abbiamo prima scritto) vede il vulnus della nuova legge in una possibile sua violazione dell’art. 27 Cost. sia riguardo alla presunzione di non colpevolezza, sia alla mancata finalità rieducativa della pena. Sul punto il CSM ( come il CNF ) in un parere scritto - leggiamo - non condivide lo spirito e la ratio della legge. Legge anticostituzionale, possiamo affermare ? E sono davvero tanti a dirlo ! I magistrati, gli avvocati ed i giuristi lo sostengono in modo fermo e da più parti. Poi sarà  comunque la Corte Costituzionale, nel futuro, ad esprimersi quando verrà chiamata a pronunciarsi. Inoltre vi è  un ulteriore punto su cui ci dobbiamo soffermare ovvero il fatto di fermare il termine della prescrizione dopo la sentenza di primo grado - che andrà  a decorrere dall’ entrata in vigore della norma -. Riteniamo che ciò non porterà  alcun beneficio sulla durata dei processi. Al contrario i tempi si allungheranno. Infatti non dimentichiamo che un buon  90 % delle prescrizioni viene dichiarato, infatti, quando non vi è stata ancora sentenza di primo grado. Ed allora cosa succederà ? Secondo noi il primo effetto a medio termine sarà un verosimile ingolfamento della macchina della giustizia. Allora è vero che le leggi le fa il Parlamento ( e guai se non fosse cosi !), ma in uno stato democratico, qual è  il nostro, esse devono conformarsi ai principi costituzionali. Concludiamo affermando che concordiamo con i vertici dell’avvocatura nel ritenere che “qualunque intervento sul processo deve partire da una riduzione dei tempi ottenibile, non certo con lo stop alla prescrizione”. E ciò non è cosa di poco conto !               

venerdì 30 novembre 2018

L’ INTERVISTA DEL GIORNALISTA E SCRITTORE ALFREDO STELLA ALL’ AVV. RAFFAELE G. CRISILEO LA PRESCRIZIONE : PERCHE’ UN TEMA COSI ATTUALE E TANTO DIBATTUTO. ( Redazione Cronache- intervista integrale pubblicata il 29 nov. 2018 ).


Si torna a parlare di riformare di nuovo la prescrizione: è questo uno dei punti più discussi della nostra giustizia. Lei, avvocato, che ne pensa? 

La prescrizione è  un istituto che stabilisce un termine entro cui un reato può essere perseguito dalla legge. Serve per evitare di celebrare processi,  quando lo Stato non ha più interesse a punire il fatto, essendo trascorso troppo tempo e, quindi, non ha senso fare un  processo. 

Ma lei la prescrizione non lo vede  come un “male”  cui far fronte ?  No. La vedo come un principio di civiltà giuridica. 

E la prescrizione negli altri ordinamenti  è  prevista ? 

La prescrizione esiste in tutti i Paesi democratici fondati su leggi scritte. Quando un fatto è troppo lontano nel tempo, lo Stato non ha più interesse  a  sanzionarlo. Quando lo Stato è impossibilitato  a perseguire il reato in tempo utile,  diventa difficile ricostruire una verità, perché gli anni fanno perdere  le tracce del fatto il cui ricordo si allontana dalla memoria. 
Non a caso si prescrivono prima i reati minori a differenza di quelli di una certa gravità  che mai  si prescrivono; penso all’ omicidio volontario aggravato, alla strage, ai crimini contro l’ umanità ecc... . 

Come si calcola il tempo ? 
Il termine si calcola sulla base del massimo della pena previsto nel Codice penale, ed è proporzionato alla gravità del reato. I reati puniti con l’ ergastolo, come l’ omicidio volontario o la strage, non cadono mai in prescrizione.

E’ corretto dire che la sentenza di prescrizione è una pronunzia di assoluzione ?

Molti pensano che  la sentenza di  prescrizione sia  un’assoluzione: ma non è così.  Se il Giudice ritiene che, al momento della intervenuta prescrizione,  il reato non sia stato accertato è obbligato a pronunciarsi per l’ assoluzione. Viceversa, se vi è un “sospetto” di colpevolezza o vi è la prova piena della colpevolezza, deve dichiarare l’ avvenuta prescrizione. 

Ma nel 2017 non era stata già riformata la prescrizione ? Ed ora di nuovo si riparla di riforma ? 

Infatti. Infatti. Nel 2017 una legge dello Stato (chiamata Legge Orlando) ha sospeso per un tempo fisso (al massimo 18 mesi) la prescrizione,  dopo la sentenza di condanna di primo grado e dopo la condanna in appello. 
Non conosciamo però ancora i risultati pratici di  questa riforma in quanto, essendo  essa per definizione una norma di diritto sostanziale penale, non è retroattiva e, quindi,  non si può applicare ai reati commessi prima che sia entrata in vigore. 
Dobbiamo attendere ( e penso un poco di tempo )  per conoscere gli effetti e le ricadute che essa va a procurare sul sistema, per cui è necessario che i processi arrivino a sentenza definitiva. 

E lei, avvocato, cosa ne pensa della nuova recente riforma che è in esame ? Ed anche della recente riforma dell’Ordinamento Penitenziario ? 

Secondo me la nuova riforma della prescrizione, di cui si discute di nuovo e tanto, è una proposta sorretta da una logica non accettabile.  Concordo con chi l’ ha definito : «Un utilizzo del diritto penale improprio e pericoloso, non più come strumento di accertamento di fatti secondo quell’iter di razionalità che è il processo penale, ma come strumento di lotta a fenomeni sociali che si assumono sistemici ».
Penso, poi,   che, in punto di Ordinamento Penitenziario, si sta stravolgendo  la fisionomia dell’originaria Legge delega. Tutto ciò, ritengo, in nome di una pena certa  ed intesa solo come carcere certo. Tutto ciò’, a mio avvviso,  porta ad una  indebolimento della discrezionalità del Giudice. E questo non lo vedo giusto. 

Ed allora lei che cosa pensa che bisogna auspicare ? 
C’è da sperare  che un confronto dialettico con magistratura, avvocatura e mondo universitario e dottrinale riesca a immaginare risposte adeguate e concrete  che possano assicurare, in tempi rapidi,  una piena e completa funzionalità alla complessa macchina processuale  e, al tempo stesso, una piena salvaguardia delle garanzie costituzionali. Tutto ciò, in buona sostanza, a partire dal principio  di non colpevolezza e dalla primaria finalità della pena: quella rieducativa. Principi fondamentali, questi, in una democrazia. 

Quali sono, secondo lei, i possibili rischi di soluzioni diverse ? 

Io penso che oggi un ennesimo intervento mirato solo sulla prescrizione aggrava solo, ed esclusivamente, la posizione dell’imputato, senza portare altri benefici di sorta, ma non riesce a tutelare le persone offese.

Ma questo suo pensiero come lo raffronta con la realtà dei fatti e come lo supporta concretamente ? 

Mi rendo conto che questa mia posizione resta mia e non è da tutti condivisa, specialmente in questo particolare momento storico. Ma io penso, al contempo, che sia opportuno e necessaria far ricorso a dei dati certi. E i dati certi, da cui partire, ci sono ! E come se non ci sono ! Le proposte, qualunque esse siano, infatti, non possono prescindere  appunti da dati  certi, che, purtroppo, sono i grandi per cosi dire “ non presenti”   in questo mega dibattito. Il primo dato certo, dal quale credo che non si possa prescindere, riguarda il numero delle prescrizioni. 

Lei a quali dati si riferisce? Ce lo può chiarire meglio questo passaggio ? 
Sfogliando delle pagine cui farò riferimento,  questi dati vengono fuori. Mi riferisco a  recenti statistiche del Ministero della Giustizia  da cui emerge che, negli ultimi dieci anni, le prescrizioni sono state ridotte quasi del 40%. Pensate quasi del 40 % ! 
Ciò’ vuol dire che i processi dichiarati prescritti, in sintesi, sono al di sotto del 10%  di quelli definiti. E non solo ! Pensate che questo dato è stato ulteriormente abbassato nel 2017 nel quale anno questi procedimenti prescritti, in cassazione, sono stati soltanto 670, pari all’ 1,2% del totale. E tutto ciò è estremamente significativo. 

E questi dati, secondo lei, cosa dimostrano ? Cosa stanno a significare nel complesso ? 
Questi dati, dal mio punto di vista, confermano questa  certezza : che sia sbagliato pensare che la prescrizione sia il buco nero in cui precipita la giustizia penale. Un dato invece è sicuro: la scure della  prescrizione oggi, rispetto ad ieri, colpisce sicuramente molto di meno. Un particolare esempio, in questa direzione, è l’epilogo della vicenda “Eternit”; caso, questo, spesso utilizzata per rappresentare l’effetto sfigurante dalla prescrizione. 
È sufficiente leggere con attenzione il dispositivo di questa  sentenza della Corte di Cassazione, che ha dichiarato il reato estinto per prescrizione, maturata anteriormente alla sentenza di primo grado. 
Con essa vogliamo dimostrare che, al contrario di quello che si pensa, è evidente, invece, che l’invocato blocco della prescrizione, dopo la sentenza di primo grado, non sarebbe in grado di proteggere le vittime da questi esiti processuali, considerato che l’estinzione del reato prima della sentenza di primo grado travolge anche le statuizioni risarcitorie. 

In definitiva lei cosa pensa di questo eventuale blocco della prescrizione della sentenza di primo grado ? 
L’interruzione definitiva della prescrizione, dopo il primo grado di giudizio, oltre a ledere  l’imputato sotto il profilo del diritto a un giusto  processo, lascia irrisolto il problema della prescrizione, intervenuta nel corso delle indagini,  e non appare in grado di tutelare appieno la persona offesa.

E’ vero che, abolendo la prescrizione, ci dovrebbero essere processi penali più veloci ? 
Secondo me non è cosi ! Si pensa che abolendo prescrizione,  dopo il primo grado di giudizio, comporterebbe  una sorta di effetto trickle- down (il cd. effetto a goccia dall’alto)  per il quale diminuirebbero le impugnazioni, verrebbe incrementato l’accesso ai riti alternativi e si ridurrebbe il numero dei dibattimenti celebrati.
Bisogna dire, rimanendo sul terreno della prescrizione, che l’impostazione che abbiamo definito “trickle- down”  non è veritiera e  non è accettabile. 
Proprio per questo riteniamo che l’abolizione della prescrizione dopo il primo grado, non accompagnata da interventi in grado di incidere sulla ragionevole durata del processo, non produrrà accelerazioni dello stesso processo, che è influenzata da altri elementi sui quali  avvocatura e magistratura devono  ragionare insieme.

Ma quali sono i tempi reali della prescrizione ?
Se quello che abbiamo detto è vero non si può dimenticare che la prescrizione ha subito un’incisiva rimodulazione con la Legge Orlando. In particolare, la modifica dell’art. 159, comma 2, nn. 1) e 2) prescrive che la prescrizione rimane sospesa per complessivi tre anni dopo la sentenza di primo grado. Inoltre, tra il 2008 e il 2016, i termini di prescrizione sono stati raddoppiati per tutta una serie di reati che non sto qui ad elencare.

Ed allora quali sono i possibili correttivi ?
Io penso che, alla prescrizione,  non può  essere affidato il compito di presidiare la ragionevole durata del processo. Non è là   che risiede la garanzia contro un processo di durata irragionevole. Non possiamo trascurare che una delle ragioni sottese alla prescrizione è correlata al diritto a non essere giudicati a distanza di molti anni dal fatto. Per questo  concordiamo con i tanti che ritengono che, al momento,  la questione fondamentale sia quella di fare luce tra le «pesanti nubi che si addensano attorno al sistema penale del nostro Paese».