Mi piace iniziare da una delle storie più cruente
della mitologia greca partendo da una trilogia di Eschilo. E' la storia, quella
della contrasto tra due fratelli che si odiano, che si contendono il trono di Micene,
ma loro è anche una lotta resa piu’ aspra dal fatto che uno dei due ha una relazione con la moglie
dell’altro e quindi quest’ultimo escogita una vendetta ai danni del primo fratello.
E allora Atreo invita Tieste ( questi i nomi dei due germani ) a
cena e gli cucina le carni dei suoi primi tre figli che egli aveva ucciso.
Questo l'antefatto di una vicenda macabra cui seguono le lotte tra
i figli di Atreo e quello di Tieste. In particolare Egisto è l'unico figlio di
Tieste sopravvissuto alla strage che vuole vendicarsi sul figlio di Atreo cioe’
su Agamennone.
Ma Agamennone non è soltanto la vittima predestinata di
Egisto, ma è anche il destinatario della vendetta della moglie, Clitennestra,
che vuole vendicare la morte della figlia Ifigenia che Agamennone aveva ucciso
personalmente per placare gli dei e consentire alla flotta di partire
per Troia.
Allora c’e’ già un primo motivo di odio tra Atreo e Tieste che
sfocia in un fatto di sangue, c'è poi l'odio dei figli verso Agamennone che,
nell'episodio di Clitennestra, uccide Agamennone.
Ma la vicenda continua :il figlio di Agamennone Oreste vendica
l'uccisione del padre e uccide Egisto e la madre Clitennestra.
Perche’ siamo partiti da questa trilogia ? Perche’ non vi e’ dubbio
che essa e’ evocativa.
Viene commesso un delitto che deve essere vendicato anche se vi
sono relazioni di consaguineità, come nel caso di Oreste che uccide la
madre.
Dopo l'uccisione di Clitennestra e di Egisto da parte di Oreste,
ci sarebbe la necessità di vendicarsi su Oreste e la catena dei delitti
dovrebbe risultare alla fine interminabile.
Ma Eschilo da’ una svolta a questa vicenda così dolorosa, nel
senso che su indicazione di Apollo e di Atena. Oreste, dopo aver commesso il
matricidio, ripara ad Atene dove avviene la svolta.
Oreste ottiene di essere giudicato da un tribunale costituito da
dodici ateniesi che ascoltano le ragioni dell'accusa e della difesa e
alla fine viene emessa una sentenza che sarebbe in parità ma siccome la
presidente della giuria è Atena che è favorevole alla assoluzione, Oreste viene
assolto.
Questa terza tragedia della trilogia è la prima importante
descrizione analitica di un processo in piena regola con l'imputato, la difesa
e l'accusa. Vi è una giuria che giudica in maniera imparziale interrompendo la
catena delle vendette.
E lo stesso Eschilo individua in questa vicenda un passaggio
storico: il passaggio da un mondo primitivo, dominato dalla violenza al mondo
civilizzato della polis, della città stato di Atene.
E' il passaggio dalla legge del taglione al tribunale : e’il
passaggio dalla vendetta alla giustizia, dalla barbarie alla civilta’.
Questo impatto emotivo serve per una riflessione.
In buona sostanza il diritto penale moderno, quello delle nostre
società civilizzate, dovrebbe essere il risultato del superamento definitivo della
logica della vendetta alla quale si sostituisce la logica della valutazione della colpa
alla quale si fa corrispondere la pena rispetto alla barbarie del sangue.
Questo passaggio sanzionerebbe il sopravvento di un diritto penale
razionale immune dalla logica della vendetta.
Ma io vorrei proporvi due interrogativi tra di loro connessi.
Il primo interrogativo è questo: siamo sicuri che attraverso l’ immaginario delle
tragedie di Eschilo ciò che viene descritto sia un passaggio lineare e
irreversibile da una società di vendetta a una di giustizia?
E il secondo interrogativo e’ questo: il diritto penale moderno,
come è noto, si fonda sul concetto di pena.Allora possiamo dire che la nozione di
pena sia tale da non portare alcuna traccia del precedente concetto di
vendetta; possiamo considerare la pena il corrispettivo razionale della colpa immune
da ogni intento puramente vendicativo?
Allora per rispondere a questi interrogativi ricorriamo a due filosofi lontani nel tempo e diversi tra
loro.
Il primo è Nietzsche e mi riferisco al suo testo che si intitola Genealogia della morale.
Nietzsche si interroga esattamente sul problema che ci siamo posti
ora: cioè si domanda qual e’ l'origine della nozione di pena,
da dove trae origine, attraverso quale percorso storico concettuale si è
affermata la nozione di pena.
Secondo Nietzsche l'origine va collocata nel rapporto contrattuale
tra creditore e debitore, il più antico rapporto economico che si conosca. Ma
affinchè il debitore si senta affettivamente vincolato alla restituzione e
affinchè il creditore gli creda è indispensabile, sottolinea Nietzsche, che il
creditore ottenga dal debitore qualcosa in pegno.
E che cosa può dare il debitore in pegno? Che cosa può dare in
pegno come garanzia della restituzione? Può dare in pegno il proprio corpo o la
propria donna o la propria libertà o la propria vita.
Di qui come logica conseguenza il fatto che il creditore ha il
diritto di esercitare ogni forma di ignominia e di tortura sul corpo del
debitore insolvente.
E Nietzsche ricorda come una testimonianza di questa consuetudine,
che non è più così remota nel tempo, l'abbiamo addirittura nella legge delle
dodici tavole, la più antica legislazione scritta romana.
A questo punto però si colloca un passaggio fondamentale, su che
cosa si regge questa relazione e in che senso la relazione creditore debitore è
quella che ci fa capire l'origine del concetto di pena e della funzione che
alla pena viene affidata.
Se voi ci pensate, tutto si regge sul fatto che al posto di un
vantaggio che sia in equilibrio col danno subito, il creditore ottiene quale
rimborso una soddisfazione intima quella di far soffrire il debitore; cioè non
riesce a ottenere indietro la somma che gli ha anticipato può invece esercitare
addirittura per legge il diritto a far soffrire il debitore e questa cosa che
egli ottiene è una compensazione che tutto sommato gli dà qualcosa di
equivalente al danno che ha subito perché non gli viene restituito il denaro.
Una soddisfazione intima.
Altrove Nietzsche afferma: perché in questo modo il creditore
acquisisce una specie di contro godimento, il godimento di veder soffrire il
debitore insolvente.
C'è un ulteriore passaggio storico sul quale si sofferma Nietzsche
e cioè che c'è una fase in cui la potestà punitiva , la capacità di
punire passa ad una autorità, per cui non può essere più il creditore a
esercitare il taglio , lo sminuzzamento degli arti del debitore perché c'è una
potestà punitiva.
E allora che cosa succede ?
Secondo Nietzsche la crudeltà evoca un'aria di festa, di godimento
e da un punto di vista può sembrare scandaloso ma non lo è; e cioè che non sono
passati molti anni da quando non vi era occasione festiva, anche nuziale nella
quale per dilettare coloro che partecipavano alla cerimonia si bandissero
esecuzioni capitali oppure forme di tortura nei confronti di prigionieri.
La crudeltà secondo Nietzsche ha appunto una grande aria di festa,
e il vedere che qualcuno viene punito offre quella sorta di soddisfazione
intima che per il creditore è tanto importante quanto il denaro che ha perduto.
Dunque per Nietzsche questa sarebbe l'origine della nozione di
pena.
Il debitore insolvente si colloca al di fuori di una relazione
equilibrata, rompe l'equilibrio e allora per ripristinare l'equilibrio cosa si
fa, gli si infligge una pena che gli provochi una sofferenza che possa dare al
creditore una soddisfazione.
Questa è l'origine della nozione di pena.
Nietzsche fa chiaramente capire con queste riflessioni di
carattere storico concettuale che siamo ancora largamente dentro la logica
della vendetta e della legge del taglione .
Abbiamo la possibilità di avere un altro scenario una
seconda chiave di lettura dell'origine della pena.
In questo caso ci aiuta a capire l'origine della pena un
filosofo del novecento, Paul Richer, che ci aiuta a dare una rilettura del
concetto di pena molto diversa ma non contraddittoria rispetto a quella
nietzschiana.
Richer parte da una precisazione di carattere etimologico e cioè
il termine pena viene dal greco poiné, la cui radice la ritroviamo anche nel
verbo latino punire.
E bene a differenza di ciò che pensiamo, punire in latino
originariamente vuol dire purgare, purificare, potremmo aggiungere lavare in
maniera da togliere la macchia.
Pena allora starebbe a indicare una azione che serve per lavare
una situazione precedente, e Richer ci aiuta a capire questo passaggio quando
dice che da questo punto di vista la pena assomiglia molto ad un altro termine
il cui significato è più immediato e più trasparente cioè il termine castigo.
Perché il significato di castigo è più immediato perché viene dal
latino castus che vuol dire puro, pulito non contaminato.
Ecco vi raccomando di cogliere questo passaggio in cui si ipotizza
che ci sia una condizione originale integra, che è stata macchiata da una
colpa.
La colpa è una macchia, una ferita di un ordine che in precedenza
era integro e allora io devo intervenire con una pena, con un castigo allo
scopo di lavare la macchia per reintegrare quell'ordine che la colpa ha
modificato, ha deformato.
Allora la pena in tutta evidenza si fonda su due presupposti.
Il primo è una visione complessiva della realtà, in cui in origine
c'è un universo bene ordinato, ben costituito,integro e che viene vulnerato
cambiato, deformato quando si commette una colpa.
Il secondo presupposto è ancora più significativo nel senso che bisogna
immaginare, io devo poter presupporre che la pena corrisponda ad una condotta
di annullamento che cancella la colpa.
Ecco perché allora io devo irrogare una pena, perché se non lo
faccio lascio la macchia, è come davvero se su una tunica candida si lasciasse
una macchia. La macchia è la colpa, la pena interviene lavando la colpa e
ripristinando il candore della tunica originaria.
Ciò che Richer, ma al di là di Richer, e avete capito
che io condivido completamente questa impostazione, vuole sottolineare, è che
la pena corrisponde dal punto vista logico ad una convinzione che
bisognerebbe dimostrare, e cioè alla convinzione che infliggere una sofferenza
a qualcuno che si sia reso colpevole di qualche reato cancelli il reato che è
stato commesso.
Insomma secondo Richer questo modo di concepire la relazione colpa
- pena si giustifica soltanto in una prospettiva di carattere mitologico.
Cioè nella prospettiva di immaginare che viviamo in un mondo che
all'origine era integro, che subisce questa alterazione della colpa e rimedia
alla alterazione della colpa mediante la pena.
Secondo Richer l'origine di questa maniera di concepire il
rapporto colpa- pena è in un certo modo un contesto di carattere mitologico
religioso, in cui cioè il peccato deve essere sanzionato con il castigo per
riportare le cose in ordine, per riportare le cose al punto di partenza .
E allora Richer osserva che mentre nel diritto penale
moderno resiste questa concezione mitologica per la quale la pena
cancellerebbe la colpa, da questo modo di vedere ha preso commiato la
religione.
In maniera particolare secondo Richer attraverso quel testo
straordinario che è la lettera di San Paolo ai Romani.
Abitualmente si considera che il salario del peccato è la pena ,
ma dice Richer , leggendo San Paolo, la novità dirompente del cristianesimo è
che Gesù fa corrispondere al peccato non il castigo ma l'infinità della sua
misericordia.
Si rompe la presunta simmetria del rapporto tra peccato e castigo,
e al peccatore che commette il peccato invece, invece che riservargli il
castigo, gli si riserva l'infinità della misericordia divina.
Alla base del diritto penale moderno c'è una concezione mitologica
della pena, c'è la convinzione che la pena cancelli la colpa, quando
invece bisognerebbe semplicemente
prendere atto che la pena incrementa il tasso complessivo di sofferenza, senza
che questa sofferenza possa in nessun modo restituire alla vittima del reato
ciò che è stato leso.
Se così stanno le cose, la pena è solo il residuo di una visione
antica e conserva tutti i caratteri della vendetta.
Non abbiamo affatto abbandonato questa spirale infernale del
sangue che chiama sangue, se è vero che la società organizzata di fronte ad un
delitto, a un reato chiama, esige, impone, invoca la pena.
Anche se questa pena non restituisce, certamente, nulla alla
vittima del reato.
Per concludere io cito le parole della maggiore filosofa del
novecento, Simone Weil, che scrive che "il diritto, in maniera particolare
il diritto penale, non è un'altra dimensione della giustizia, non è la sua immagine
sbiadita, ma è il suo avversario irriducibile”.
E aggiunge il filosofo antropologo, Renè Girard, è che ciò che
emerge alla radice del diritto di pena è la persistenza implacabile del
meccanismo della vendetta, un tentativo ricorrente, ma fallito, di
razionalizzare la vendetta.
La pena, scriveva Girard, è violenza senza rischio di vendetta.
E in qualche modo io credo che possiamo trovare una conferma di
questo concetto di pena, della sua indifendibilità, del fatto cioè che essa
ambisca a una razionalità che non riesce in alcun modo a dimostrare.
Siccome dal punto di vista teorico non è possibile trovare altra
giustificazione del concetto di pena che non sia l'esigenza che la società
avverte di una vendetta nei confronti del reo,l'unica cosa possibile, forse, è
affidarsi, dove è possibile, al buon senso, di queste nozioni che sono alla
base del diritto penale, al riconoscimento dell'insuperabilità di questa
aporia , senza dimenticare - come già Pindaro e poi Platone scrivevano - che la
tyche, ovvero la giustizia abita presso dio.
Ma se e’ vero che tutto ciò che gli uomini possono fare è solo un
diritto imperfetto, lacunoso e difettivo, che porta con sé un carico
insuperabile di contraddizioni, e’ pur vero che solo quando la pena
non diventi retributiva.