venerdì 3 gennaio 2020

Mai la giustizia deve essere retributiva!


Mi piace iniziare  da una delle storie più cruente della mitologia  greca partendo da una trilogia di Eschilo. E' la storia, quella della contrasto  tra due fratelli che si odiano, che  si contendono il trono di Micene, ma loro è anche una lotta resa piu’ aspra dal fatto che uno dei due ha  una relazione con la moglie dell’altro e quindi quest’ultimo escogita una vendetta  ai danni del primo fratello.
E allora Atreo invita Tieste ( questi i nomi dei due germani ) a cena e gli cucina le carni dei suoi primi tre figli che egli aveva ucciso.
Questo l'antefatto di una vicenda macabra cui seguono le lotte tra i figli di Atreo e quello di Tieste. In particolare Egisto è l'unico figlio di Tieste sopravvissuto alla strage che vuole vendicarsi sul figlio di Atreo cioe’ su Agamennone.
Ma Agamennone non è soltanto la vittima predestinata di Egisto,  ma  è anche il destinatario della vendetta della moglie, Clitennestra, che vuole vendicare la morte della figlia Ifigenia che Agamennone aveva ucciso personalmente per placare gli dei e  consentire alla flotta di partire per Troia.
Allora c’e’ già un primo motivo di odio tra Atreo e Tieste che sfocia in un fatto di sangue, c'è poi l'odio dei figli  verso Agamennone che, nell'episodio di  Clitennestra, uccide Agamennone.
Ma la vicenda continua :il figlio di Agamennone Oreste vendica l'uccisione del padre e uccide Egisto e la madre Clitennestra. 
Perche’ siamo partiti da questa trilogia ? Perche’ non vi e’ dubbio che essa e’ evocativa. 
Viene commesso un delitto che deve essere vendicato anche se vi sono  relazioni di consaguineità, come nel caso di Oreste che uccide la madre.
Dopo l'uccisione di Clitennestra e di Egisto da parte di Oreste, ci sarebbe la necessità di vendicarsi su Oreste e la catena dei delitti dovrebbe risultare alla fine interminabile.
Ma Eschilo da’ una svolta a questa vicenda così dolorosa, nel senso che su indicazione di Apollo e di Atena.  Oreste,  dopo aver commesso il matricidio,  ripara ad Atene dove avviene la svolta.
Oreste  ottiene di essere giudicato da un tribunale costituito da dodici  ateniesi che ascoltano le ragioni dell'accusa e della difesa e alla fine viene emessa una sentenza che sarebbe in parità ma siccome la presidente della giuria è Atena che è favorevole alla assoluzione, Oreste viene assolto.
Questa terza tragedia della trilogia è la prima importante descrizione analitica di un processo in piena regola con l'imputato, la difesa e l'accusa. Vi  è una giuria che giudica in maniera imparziale interrompendo la catena  delle vendette.
E lo stesso Eschilo individua in questa vicenda un passaggio storico: il passaggio da un mondo primitivo, dominato dalla violenza al mondo civilizzato della polis, della città stato di Atene.
E' il passaggio dalla legge del taglione al tribunale : e’il passaggio dalla vendetta  alla giustizia,  dalla barbarie alla civilta’. Questo impatto emotivo serve per  una riflessione.
In buona sostanza il diritto penale moderno, quello delle nostre società civilizzate,  dovrebbe essere il risultato del superamento definitivo della logica della vendetta alla quale si sostituisce la logica  della valutazione della colpa alla quale si fa corrispondere la pena rispetto alla barbarie del sangue.
Questo passaggio sanzionerebbe il sopravvento di un diritto penale razionale immune dalla logica della vendetta.
Ma io vorrei proporvi due interrogativi tra di loro connessi.
Il primo interrogativo è questo: siamo sicuri che  attraverso l’ immaginario delle tragedie di Eschilo ciò che viene descritto sia un passaggio lineare e irreversibile da una società di vendetta a una di giustizia?
E il secondo interrogativo e’ questo: il diritto penale moderno, come è noto, si fonda sul concetto di pena.Allora  possiamo dire che la nozione di pena sia tale da non portare alcuna traccia del precedente concetto di vendetta; possiamo  considerare la pena il corrispettivo razionale della colpa immune da ogni intento puramente vendicativo?
Allora per rispondere a questi interrogativi ricorriamo  a due filosofi  lontani nel tempo e diversi tra loro. 
Il primo è Nietzsche e mi riferisco al suo testo  che si intitola Genealogia della morale.
Nietzsche si interroga esattamente sul problema che ci siamo posti ora: cioè si domanda qual e’  l'origine della nozione di pena, da dove trae origine, attraverso quale percorso storico concettuale si è affermata la nozione di pena.
Secondo Nietzsche l'origine va collocata nel rapporto contrattuale tra creditore e debitore, il più antico rapporto economico che si conosca. Ma affinchè il debitore si senta affettivamente vincolato alla restituzione e affinchè il creditore gli creda è indispensabile, sottolinea Nietzsche, che il creditore ottenga dal debitore qualcosa in pegno.
E che cosa può dare il debitore in pegno? Che cosa può dare in pegno come garanzia della restituzione? Può dare in pegno il proprio corpo o la propria donna o la propria libertà o la propria vita.
Di qui come logica conseguenza il fatto che il creditore ha il diritto di esercitare ogni forma di ignominia e di tortura sul corpo del debitore insolvente.
E Nietzsche ricorda come una testimonianza di questa consuetudine, che non è più così remota nel tempo, l'abbiamo addirittura nella legge delle dodici tavole, la più antica legislazione scritta romana. 
A questo punto però si colloca un passaggio fondamentale, su che cosa si regge questa relazione e in che senso la relazione creditore debitore è quella che ci fa capire l'origine del concetto di pena e della funzione che alla pena viene affidata.
Se voi ci pensate, tutto si regge sul fatto che al posto di un vantaggio che sia in equilibrio col danno subito, il creditore ottiene quale rimborso una soddisfazione intima quella di far soffrire il debitore; cioè non riesce a ottenere indietro la somma che gli ha anticipato può invece esercitare addirittura per legge il diritto a far soffrire il debitore e questa cosa che egli ottiene è una compensazione che tutto sommato gli dà qualcosa di equivalente al danno che ha subito perché non gli viene restituito il denaro. Una soddisfazione intima.
Altrove Nietzsche afferma: perché in questo modo il creditore acquisisce una specie di contro godimento, il godimento di veder soffrire il debitore insolvente.
C'è un ulteriore passaggio storico sul quale si sofferma Nietzsche e cioè che c'è una fase in cui la potestà punitiva , la  capacità di punire passa ad una autorità, per cui non può essere più il creditore a esercitare il taglio , lo sminuzzamento degli arti del debitore perché c'è una potestà punitiva.
E allora che cosa succede ?
Secondo Nietzsche la crudeltà evoca un'aria di festa, di godimento e da un punto di vista può sembrare scandaloso ma non lo è; e cioè che non sono passati molti anni da quando non vi era occasione festiva, anche nuziale nella quale per dilettare coloro che partecipavano alla cerimonia si bandissero esecuzioni capitali oppure forme di tortura nei confronti di prigionieri.
La crudeltà secondo Nietzsche ha appunto una grande aria di festa, e il vedere che qualcuno viene punito offre quella sorta di soddisfazione intima che per il creditore è tanto importante quanto il denaro che ha perduto.
Dunque per Nietzsche questa sarebbe l'origine della nozione di pena.
Il debitore insolvente si colloca al di fuori di una relazione equilibrata, rompe l'equilibrio e allora per ripristinare l'equilibrio cosa si fa, gli si infligge una pena che gli provochi una sofferenza che possa dare al creditore una soddisfazione.
Questa è l'origine della nozione di pena.
Nietzsche fa chiaramente capire con queste riflessioni di carattere storico concettuale che siamo ancora largamente dentro la logica della vendetta e della legge del taglione .
Abbiamo la possibilità di  avere un altro scenario una seconda chiave di lettura dell'origine della pena.
In questo caso ci aiuta a capire l'origine della pena un filosofo  del novecento, Paul Richer, che ci aiuta a dare una rilettura del concetto di pena molto diversa ma non contraddittoria rispetto a quella nietzschiana.
Richer parte da una precisazione di carattere etimologico e cioè il termine pena viene dal greco poiné, la cui radice la ritroviamo anche nel verbo latino punire.
E bene a differenza di ciò che pensiamo, punire in latino originariamente vuol dire purgare, purificare, potremmo aggiungere lavare in maniera da togliere la macchia.
Pena allora starebbe a indicare una azione che serve per lavare una situazione precedente, e Richer ci aiuta a capire questo passaggio quando dice che da questo punto di vista la pena assomiglia molto ad un altro termine il cui significato è più immediato e più trasparente cioè il termine castigo.
Perché il significato di castigo è più immediato perché viene dal latino castus che vuol dire puro,  pulito non contaminato. 
Ecco vi raccomando di cogliere questo passaggio in cui si ipotizza che ci sia una condizione originale integra, che è stata macchiata da una colpa.
La colpa è una macchia, una ferita di un ordine che in precedenza era integro e allora io devo intervenire con una pena, con un castigo allo scopo di lavare la macchia per reintegrare quell'ordine che la colpa ha modificato, ha deformato.
Allora la pena in tutta evidenza si fonda su due presupposti.
Il primo è una visione complessiva della realtà, in cui in origine c'è un universo bene ordinato, ben costituito,integro e che viene vulnerato cambiato, deformato quando si commette una colpa.
Il secondo presupposto è ancora più significativo nel senso che bisogna immaginare, io devo poter presupporre che la pena corrisponda ad una condotta di annullamento che cancella la colpa.
Ecco perché allora io devo irrogare una pena, perché se non lo faccio lascio la macchia, è come davvero se su una tunica candida si lasciasse una macchia. La macchia è la colpa, la pena interviene lavando la colpa e ripristinando il candore della tunica originaria.
Ciò che Richer,  ma al di là di Richer,  e avete capito che io condivido completamente questa impostazione, vuole sottolineare, è che  la pena corrisponde dal punto vista logico ad una convinzione che bisognerebbe dimostrare, e cioè alla convinzione che infliggere una sofferenza a qualcuno che si sia reso colpevole di qualche reato cancelli il reato che è stato commesso.
Insomma secondo Richer questo modo di concepire la relazione colpa - pena si giustifica soltanto in una prospettiva di carattere mitologico.
Cioè nella prospettiva di immaginare che viviamo in un mondo che all'origine era integro, che subisce questa alterazione della colpa e rimedia alla alterazione della colpa mediante la pena.
Secondo Richer  l'origine di questa maniera di concepire il rapporto colpa- pena è in un certo modo un contesto di carattere mitologico religioso, in cui cioè il peccato deve essere sanzionato con il castigo per riportare le cose in ordine, per riportare le cose al punto di partenza .
E allora Richer  osserva che mentre nel diritto penale moderno resiste  questa concezione mitologica per la quale la pena cancellerebbe la colpa, da questo modo di vedere ha preso commiato la religione.
In maniera particolare secondo Richer  attraverso quel testo straordinario che è la lettera di San Paolo ai Romani.
Abitualmente si considera che il salario del peccato è la pena , ma dice Richer , leggendo San Paolo, la novità dirompente del cristianesimo è che Gesù fa corrispondere al peccato non il castigo ma l'infinità della sua misericordia.
Si rompe la presunta simmetria del rapporto tra peccato e castigo, e al peccatore che commette  il peccato invece, invece che riservargli il castigo, gli si riserva l'infinità della misericordia divina.
Alla base del diritto penale moderno c'è una concezione mitologica della pena, c'è la convinzione che la pena cancelli la colpa, quando invece bisognerebbe semplicemente prendere atto che la pena incrementa il tasso complessivo di sofferenza, senza che questa sofferenza possa in nessun modo restituire alla vittima del reato ciò che è stato leso.
Se così stanno le cose, la pena è solo il residuo di una visione antica e conserva tutti i caratteri della vendetta.
Non abbiamo affatto abbandonato questa spirale infernale del sangue che chiama sangue, se è vero che la società organizzata di fronte ad un delitto, a un reato chiama, esige, impone, invoca la pena.
Anche se questa pena non restituisce, certamente, nulla alla vittima del reato.
Per concludere io cito le parole della maggiore filosofa del novecento, Simone Weil, che scrive che "il diritto, in maniera particolare il diritto penale,  non è un'altra dimensione della giustizia, non è la sua immagine sbiadita, ma è il suo avversario irriducibile”.
E aggiunge il filosofo antropologo, Renè Girard, è che ciò che emerge alla radice del diritto di pena è la persistenza implacabile del meccanismo della vendetta, un tentativo ricorrente, ma fallito, di razionalizzare la vendetta.
La pena, scriveva Girard, è violenza senza rischio di vendetta.
E in qualche modo io credo che possiamo trovare una conferma di questo concetto di pena, della sua indifendibilità, del fatto cioè che essa ambisca a una razionalità che non riesce in alcun modo a dimostrare.
Siccome dal punto di vista teorico non è possibile trovare altra giustificazione del concetto di pena che non sia l'esigenza che la società avverte di una vendetta nei confronti del reo,l'unica cosa possibile, forse, è affidarsi, dove è possibile, al buon senso,  di queste nozioni che sono alla base del diritto penale, al riconoscimento  dell'insuperabilità di questa aporia , senza dimenticare - come già Pindaro e poi Platone scrivevano - che la tyche, ovvero la giustizia abita presso dio.
Ma  se e’ vero che tutto ciò che gli uomini possono fare è solo un diritto imperfetto, lacunoso e difettivo, che porta con sé un carico insuperabile di contraddizioni,  e’ pur vero che solo quando la pena non diventi retributiva.