La nostra storia e la nostra cultura ci deve allontanare da un
concetto della pena che sia solo quello di punire chi ha commesso un
reato, ma il suo vero fine deve essere quello della riabilitazione
e della rieducazione. Una duplice riabilitazione: prima per se’ stesso e
poi per la società in cui vive ed in cui ha (e dovrà avere) relazioni. Allo
stesso modo occorre creare le condizioni per prendersi cura, e con scrupolo,
delle vittime del reato.
Ciò significa che amministrare la giustizia non vuol dire solo
“mettere le mani” sul colpevole e pronunciare soltanto nei suoi confronti
una sentenza di condanna, ma significa innanzitutto mettere al primo
posto, il rispetto “la dignità”, i “diritti della persona umana”, sia vittima
che reo; questo senza discriminazione alcuna.
Al di là delle norme che rischiano soltanto di far
rispettare la legge senza convinzione interiore, è importante puntare
l’attenzione soprattutto su un ulteriore importante aspetto che consiste nella
“riparazione del danno provocato”.
Ciò non solo da un punto di vista penale, ma anche sotto il
profilo della “contrizione interiore dell’uomo”. In tanti pensieri
di giuristi e di filosofi si riscontra “una mancanza di proporzione,
necessaria, tra il delitto compiuto e la pena, per cui non si può
rimediare solo con la sua funzione retributiva senza quella rieducativa.
Bisogna certamente dare giustizia alla vittima del reato, ma non si deve
“giustiziare” l'aggressore con l’isolamento”.
E’ questo della rieducazione (anche interiore) deve essere
il principio della pena. Se cosi non fosse significherebbe abdicare alle
nostre origini culturali, morali e poi alle nostre radici
umanitarie.
Bisogna spazzare via pregiudizi e preconcetti che
conducono verso una sensibilità che oggi è poco presente, nella quale non si fa
altro che credere che i delitti siano risolti quando chi li ha compiuti viene
condannato e non si presta la giusta attenzione allo stato in cui si vengono
a trovare sia le vittime che i rei.
E tutto ciò cosa può significare? L’unica risposta possibile è
ritenere che si incorre in errore l’ identificare la riparazione che si
può dare alla vittima solo con la punizione di chi ha commesso il reato. Perché
ciò porta a confondere la
giustizia con la vendetta; e la vendetta, come la storia ci ha insegnato,
aumenta soltanto la violenza.
E del resto inasprire le pene non risolve i problemi sociali di
una collettività sofferente né diminuisce la criminalità. E non solo! Ma
ha spaventose ricadute sulla società: in primis le carceri sono sovraffollate.
Ed allora bisogna fare in modo che le persone che s’imbattono (specialmente
quelle per la prima volte) in condanne cambino interiormente e la pena per loro
sia una svolta, una riflessione sui veri valori della vita umana. Ecco le pene
meno afflittive. Il tutto con lo scopo di migliorare ed educare l'uomo che deve
riparare al danno causato senza essere schiacciato dal peso delle sue miserie.
In definitiva non basta avere leggi giuste, ma è necessario
formare persone responsabili e capaci di osservarle.
Il “perdono responsabile” in definitiva non diminuisce la
necessità di correzione, propria della giustizia, né prescinde dalla necessità
della conversione personale, ma una “giustizia umanizzante” può essere
realizzato anche e soprattutto attraverso misure alternative che
consentano al perdono di raggiungere una dimensione istituzionale.
Concludo con le parole del Procuratore Capo di Bologna, il dott. Giuseppe
Amato, che condivido appieno che afferma “ La vita ha delle sue tragicità per
cui non può essere criticata sulla base di considerazioni emozionali
fatte ex post da chi non le ha vissute”.
avv. Raffaele G. Crisileo