sabato 7 luglio 2018

Verso una pena più umanizzante.


La nostra storia e la nostra cultura ci deve allontanare da un concetto della pena che sia solo quello di punire chi ha commesso un reato,  ma il suo vero fine  deve essere quello della riabilitazione e della rieducazione. Una duplice riabilitazione: prima  per se’ stesso e poi per la società in cui vive ed in cui ha (e dovrà avere) relazioni. Allo stesso modo occorre creare le condizioni per prendersi cura, e con scrupolo, delle vittime del reato.
Ciò significa che amministrare la giustizia non vuol dire solo “mettere le mani” sul colpevole e pronunciare soltanto nei suoi  confronti una sentenza di condanna, ma  significa innanzitutto mettere al primo posto, il rispetto “la dignità”, i “diritti della persona umana”, sia vittima che reo; questo senza discriminazione alcuna. 
Al di là delle  norme che rischiano soltanto  di far rispettare la  legge senza convinzione interiore, è importante puntare l’attenzione soprattutto su un ulteriore importante aspetto che consiste nella “riparazione del danno provocato”. 
Ciò non solo da un punto di vista penale, ma anche sotto il profilo della “contrizione interiore dell’uomo”. In tanti pensieri di giuristi e di filosofi si riscontra “una  mancanza di proporzione, necessaria, tra il delitto compiuto e la pena, per cui non si  può rimediare solo con la sua funzione retributiva  senza quella rieducativa. Bisogna certamente dare giustizia alla vittima del reato, ma non si deve “giustiziare” l'aggressore con l’isolamento”. 
E’ questo della rieducazione (anche interiore) deve essere  il principio della pena. Se cosi non fosse significherebbe abdicare alle nostre  origini culturali, morali  e poi  alle nostre radici umanitarie. 
Bisogna  spazzare via pregiudizi e preconcetti che conducono verso una sensibilità che oggi è poco presente, nella quale non si fa altro che credere che i delitti siano risolti quando chi li ha compiuti viene condannato e non si presta la giusta attenzione allo stato  in cui si vengono a trovare sia  le vittime che i rei.
E tutto ciò cosa può significare? L’unica risposta possibile è ritenere che si incorre in errore  l’ identificare la riparazione che si può dare alla vittima solo con la punizione di chi ha commesso il reato. Perché ciò  porta  a confondere la giustizia con la vendetta; e la vendetta, come la storia ci ha insegnato, aumenta soltanto la violenza.
E del resto inasprire le pene non risolve i problemi sociali di una collettività sofferente né diminuisce  la criminalità. E non solo! Ma ha spaventose ricadute sulla società: in primis le carceri sono sovraffollate. Ed allora bisogna fare in modo che le persone che s’imbattono (specialmente quelle per la prima volte) in condanne cambino interiormente e la pena per loro sia una svolta, una riflessione sui veri valori della vita umana. Ecco le pene meno afflittive. Il tutto con lo scopo di migliorare ed educare l'uomo che deve riparare al danno causato senza essere schiacciato dal peso delle sue miserie.
In definitiva non basta avere leggi giuste, ma è necessario formare persone responsabili e capaci di osservarle. 
Il “perdono responsabile” in definitiva non diminuisce la necessità di correzione, propria della giustizia, né prescinde dalla necessità della conversione personale, ma una “giustizia umanizzante” può essere realizzato anche e soprattutto attraverso  misure alternative che consentano al perdono di raggiungere una dimensione istituzionale.  Concludo con le parole del Procuratore Capo di Bologna, il dott. Giuseppe Amato, che condivido appieno che afferma “ La vita ha delle sue tragicità per cui non può essere  criticata sulla base di considerazioni emozionali fatte ex post da chi non le ha vissute”. 


avv. Raffaele G. Crisileo